sabato 30 aprile 2016

Fantasmi e vini nel borgo più bello d’Italia

       Dopo Gangi e Montalbano Elicona, un terzo comune siciliano ha conseguito la palma di borgo più bello d’Italia: Sambuca di Sicilia, che si trova nella valle del Belice, in provincia di Agrigento. Fondata dall’emiro arabo Al-Zabut che, verso l’830, alle pendici del monte Genuardo, fece erigere un castello intorno al quale si sviluppò il paese, Sambuca conta oggi circa 6.000 abitanti. Zabut, ribattezzata Sambuca nel 1923, ha un accogliente teatro e, dall’area archeologica del monte Adranone, offre uno splendido panorama; i suoi vigneti producono eccellenti vini Doc. Al paesino, patria del pittore Giambecchina, non manca neppure la tinta “noir”: si narra che nell’antico quartiere dei sette vicoli saraceni riecheggiasse il lamento degli arabi uccisi da Federico II nel 1225 e che, nelle notti di luna piena, vagasse disperata l’ombra di un saraceno. Chissà se la proclamazione a borgo più bello d’Italia non riesca finalmente a placare i fantasmi infelici …
                                                                  Maria D’Asaro:Centonove” n. 17 del 28.4.2016

martedì 26 aprile 2016

SOS Terra: uno spot ci salverà?


        Dal 1970, il 22 aprile si celebra la “Giornata della terra”, ricorrenza propizia per ricordare che il Global Footprint Network, l’organizzazione che si occupa di “contabilità ambientale”, ha segnato nel 13/8/2015 l’Earth Overshoot Day, il giorno in cui la popolazione mondiale ha consumato tutte le risorse disponibili per il 2015. A causa dell’irresponsabile consumo di materie prime, ogni anno l’Overshoot Day ricorre sempre in anticipo: nel 2014 è stato il 19/8, mentre 15 anni prima cadeva a inizio ottobre. E’ il 1970 l’ultimo anno in cui i consumi sono stati pari alle risorse terrestri. Che fare? Anziché proporre veri cambiamenti, commissioniamo spot suggestivi ai divi di Hollywood: così Julia Roberts afferma: «Qualcuno mi chiama Natura, altri Madre Natura. Io non ho bisogno degli uomini. Sono gli uomini ad avere bisogno di me. (…) Le vostre azioni determineranno il vostro destino, non il mio. Io sono pronta a evolvere e voi?»
                                                  Maria D’Asaro: “Centonove” n. 16 del 21.4.2016

venerdì 22 aprile 2016

Antigone: la grazia dell'audacia

Antigone (Frederic Leighton)  
          La storia di Antigone, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle, è nota: Antigone, contravvenendo alla volontà di Creonte, re di Tebe, dà sepoltura al cadavere del fratello Polinice. Scoperta, viene condannata a vivere reclusa in una grotta, dove però la donna si uccide. Al suo suicidio, seguono quello del fidanzato Emone e di Euridice, rispettivamente figlio e moglie di Creonte, che dunque alla fine maledice la sua testarda stoltezza. Su Antigone, emblema del coraggio e della necessità di ribellarsi alle leggi ingiuste e inumane, hanno scritto autori del calibro di Brecht, poeti come Mario Luzi, stimati giuristi contemporanei come Gustavo Zagrebelsky. 
        Perchè scriverne ancora? Il contributo originale del saggio di Giovanni Salonia:  La Grazia dell’Audacia (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2012, €8) consiste, come recita il sottotitolo del libro, nel proporre una lettura gestaltica dell’Antigone: nell’analizzarne cioè la vicenda anche con le lenti della Psicologia della Gestalt. Sin dalle sue origini, con Paul Goodman la Gestalt Therapy ci invita a rifiutare ogni potere tronfio e arbitrario, perchè l’autorità esercitata al di fuori delle relazioni è fonte di infelicità e smarrimento. Infatti, come sottolinea nella prefazione Antonio Sichera: “Solo se condivisa e costituita nel contatto, l’autorità esercita un potere riconosciuto e liberante”. La Gestalt Therapy, continua Sichera, si oppone “ad una configurazione della politica (…) quale mondo vitale in cui si imponga la legge del più forte e la creatività sia colpevolmente conculcata”; ”a un fondamento del potere (…)che fa dell’altro un territorio di conquista e lo deforma, lo blocca fino a ridurlo ad una cosa inerte, privandolo cioè del moto della vita e dell’anima vivificante”. 
Il prof. Giovanni Salonia
      In quest’ottica, nelle pagine intense e vibranti dedicate alla vicenda di Antigone - il libretto ha in tutto 77 pagine, che comprendono anche una ricca bibliografia e il testo integrale della tragedia di Sofocle tradotto da Margherita Pisana - lo psicoterapeuta Giovanni Salonia,direttore dell’Istituto Gestalt Therapy Kairòs, ci offre intuizioni preziose per fondare una società finalizzata alla realizzazione e custodia dell’ordo amoris. L’autore si chiede intanto se la 'hybris' di Creonte, la sua arroganza cieca e ostinata, non sia anche un problema di genere: citando Hanna Arendt e Adriana Cavarero, ribadisce che “la comunità ha bisogno della donna per una polis nella quale sia affermato il carattere relazionale dell’esistere, del con-vivere; poiché “la separazione fra donna/casa e maschio/città, nella storia e nel pensiero occidentale, si è declinata come demarcazione tra la donna che dà la vita e il maschio che genera morte”. Allora la straordinaria modernità di Antigone “sta nell’aver compiuto il passo dalla casa alla città”:  perché, come Sofocle aveva intuito, una società senza donne “è come un corpo senza utero, incapace di accogliere la vita e quindi orientato verso la morte e la barbarie”. L’autore non trascura i riferimenti alla figura biblica di Eva, donata ad Adamo come aiuto di fronte, ‘contro’ di lui, e  sottolinea con Edith Stein la resistenza come “destino” della donna: Antigone è l’icona delle donne che resistono al potere ingiusto per dar vita a relazioni genuine e integre, a società che apprendano la legge iscritta nel corpo di ogni donna: “Sono nata non per odiare, ma per amare (verso 523). 
           Salonia offre dunque la chiave per affrontare radicalmente la questione femminile (e maschile!) e, suggerendo un’autentica e feconda comunione tra ‘registri’ maschili e femminili, ci fa sognare un futuro diverso, più luminoso e creativo, caratterizzato dalla presenza paritaria di uomini e donne nell’oikos e nella polis: “Si tratta (…) di cambiare radicalmente le forme del vivere insieme tra donna e uomo nella città e nella casa: si tratta di avviarsi verso un reciproco, rispettoso, costitutivo e interessato ascolto dell’altro.” Mettersi in discussione e ascoltarsi reciprocamente, imparando “l’umiltà relazionale”; rifiutare il pensiero unico e accogliere il pensiero duale e plurale, come ci suggeriva Luce Irigaray, diventano dunque necessità esistenziali e sociali insieme, nella nostra postmodernità in cui, come ai tempi di Sofocle, gli dei sono ormai diventati silenziosi.  
          Allora, conclude profeticamente Salonia: “L’ordo amoris richiede di ripensare la donna nella città e l’uomo nella casa. Quando la città, le civiltà saranno pensate (…) al ‘femminile-maschile’ scopriremo possibilità inedite di risposta alle domande della polis: come coniugare gli interessi degli uni con quelli degli altri? E’ ovvio che questo richiede che la presenza della donna non sia episodica o aggiuntiva, ma venga percepita come costitutiva del pensiero politico.” Perchè “non è la donna ad avere bisogno di andare nella polis per realizzare pienamente se stessa, ma è la polis che ha necessità della donna per diventare (più) umana.”   
                              Maria D’Asaro:Centonove” n. 16 del 21.4.2016, pag.31

giovedì 21 aprile 2016

Bimba

Velluto
Di tenerezza
I tuoi occhietti:
carezze scintillanti di luce.
Bimba ...

lunedì 18 aprile 2016

Legalità va cercando, che sì cara ...

Ieri pomeriggio, presso l’aula consiliare del Comune di Trabia, si è discusso di legalità assieme all’autore del libretto omonimo, prof. Augusto Cavadi. 
Ecco una sintesi del mio intervento:

       Il prof.Cavadi ci fornisce in questo libretto tanto sintetico ed essenziale, quanto prezioso, una informazione ‘basica’ su un concetto – quello di legalità - purtroppo poco masticato e “introiettato” dai noi cittadini. In Italia c'è molta confusione sulla concezione e sulla pratica della legalità: in Sicilia c’è forse un difetto di legalità, a Bergamo magari un eccesso, che sfiora il legalismo:  (…) Sicuramente il concetto di legalità  necessita di “inculturazione”, va cioè legato all’antropologia, alla cultura, alla riflessione dei cittadini.  
Il prof. Cavadi ci ricorda innanzitutto, con don Ciotti, che le leggi - da quelle relative al codice della strada alle norme giuridiche più  rilevanti - sono l’impalcatura del patto sociale e della convivenza civile e che esse nascono per difendere i diritti di tutti, soprattutto dei meno forti e dei meno fortunati: forse non sarebbero necessarie solo in un’ipotetica società composta da buoni e onesti, in una sorta di agognato paradiso terrestre. 
L’autore fornisce poi alcuni chiarimenti sulla differenza tra legalità e legalismo (la legalità è una virtù solo quando è saggia ricerca della giustizia, altrimenti diviene legalismo) e sulla distinzione e l’inscindibilità tra legalità e giustizia.  Tale distinzione ci ricorda che solo in teoria tutto ciò che è legale è giusto: in pratica può capitare che è legale un comportamento ingiusto e viceversa è illegale un comportamento giusto (ricordiamo la “legalità” nazista dello sterminio degli ebrei).
La legalità quindi rimanda alla giustizia come suo fondamento e ci induce, prima di tutto, a chiederci cosa sia la giustizia: intanto la giustizia (considerata dall’etica cristiana una delle quattro virtù cardinali) è dare a ciascuno il suo, ciò che gli spetta, ciò a cui ha diritto. Quindi una legalità senza ricerca della giustizia è una legalità morta, senza speranza; di conseguenza la sfera giuridica non è autonoma rispetto alle  sfere dell’agire politico e dell’etica.  
Cosa deve fare un buon cittadino? Conoscere le leggi, discernerne il fondamento alla luce di alcuni strumenti importanti, rispettarle con fedeltà se non confliggono con i predetti strumenti. Ha però il diritto/dovere di resistere alle leggi ingiuste e di concorrere alla creazione di leggi giuste. Il cittadino deve essere quindi soggetto attivo della politica. Deve quindi:
  • Prima di tutto conoscere:  L’arte di vivere la legalità comporta un paziente esercizio che deve iniziare dalla conoscenza, da una corretta  informazione delle norme.
  • Poi, alla luce di  tre strumenti importanti: 1) Dichiarazione dei diritti dell’uomo (10.12.1948); 2) Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950); 3) Costituzione italiana (1947) è necessario discernere il fondamento di equità e giustizia della norma.
  • Dopo il discernimento, è necessaria la fedeltà alle leggi. Quando una norma, stabilita seconde procedure legali, non confligge con la nostra coscienza morale, essa va rispettata con fedeltà. Perché una legalità democratica interiorizzata, vissuta non per paura delle sanzioni, è fattore irrinunciabile di bene comune. Gandhi, pur ribadendo che la disubbidienza civile è un diritto intrinseco del cittadino, puntualizza che “un democratico è un amante della disciplina.” Solo chi normalmente obbedisce alle leggi, acquista il diritto alla disobbedienza civile. Solo chi dimostra di sapere rispettare le leggi giuste a costo di rimetterci ha il diritto di opporsi a quelle leggi che gli risultano ingiuste e/o immorali. 
  • Resistere alle leggi ingiuste è un diritto e un dovere. La resistenza per ragioni etiche a norme ingiuste si differenzia dal ribellismo per ragioni di interesse privato perché chi resiste alla legalità ingiusta è disposto a pagare le conseguenze della propria disobbedienza. Lo hanno dimostrato in tanti: nell'Antigone, scritta da Sofocle nel 442 a.C., una donna, Antigone, disobbedisce al comando del re Creonte che vieta di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice; nel 1955, una donna in carne e ossa, Rosa Parks, nella cittadina di Montgomery, in Alabama, negli USA, rifiuta di alzarsi dal posto dell’autobus assegnato ai cittadini di pelle bianca: grazie al suo gesto coraggioso, Martin Luther King inizia la lotta contro la segregazione razziale;  Nelson Mandela trascorre 27 anni in carcere, in un’isoletta sperduta, per la sua lotta contro l'apartheid in Sudafrica; don Lorenzo Milani, negli anni '60, quando fare il militare e imbracciare le armi in Italia era obbligatorio, fu sostenitore dell’obiezione di coscienza: celebre la sua frase: "L’obbedienza non è più una virtù"; ricordiamo infine Franz Jagerstatter e Dietrich Bonhoeffer, un contadino austriaco e un teologo luterano tedesco che pagarono con la vita la resistenza al Nazismo.
  • Ma non è sufficiente resistere alle leggi ingiuste; tale resistenza esige di farsi controproposta pubblica e quindi di essere creativa e propositiva: “La politica è la risposta senza la quale ogni possibile resistenza all’illegalità istituzionale o si spegne per stanchezza o diventa eversione distruttiva" (Lettera di Giacomo Ulivi, partigiano morto nella lotta di liberazione)
Il prof Cavadi ci ricorda quindi il legame inscindibile tra giustizia, legalità, politica: senza giustizia la legalità si degrada a legalismo, senza azione politica non possiamo ottenere leggi giuste e operare per il miglioramento della società.  
Oggi ci sono dei rischi per la tenuta democratico-legalitaria-partecipativa della nostra società: intanto la difficoltà di costruire e implementare il senso della "communitas" in una società liquida e priva di punti di riferimento: morte le grandi narrazioni politiche, morte le ideologie, cosa è nato al loro posto? Esaurito il ruolo dei partiti tradizionali, come fare politica oggi? I social network ci aiutano davvero a costruire partecipazione politica? E’ la rete la soluzione all’astensionismo? Possiamo limitarci ai “mi piace” per costruire partecipazione? Poiché è eroico resistere alle leggi ingiuste, dobbiamo essere sentinelle capaci di prevenzione: dobbiamo contribuire a deliberare norme eque. E' più che mai necessario riscoprire il senso profondo dell’affermazione di Paolo VI: "La politica è la più alta forma di carità". E’ quindi necessaria la partecipazione consapevole, matura e vigile dei cittadini: è indispensabile un paziente e continuo esercizio di democrazia, a partire dal condominio al Comune e via via alle assemblee legislative più ampie e inclusive, evitando ignoranza, qualunquismo, astensionismo, deleghe, voti di scambio. 
Cosa fare infine come donne, come cittadine per l’affermazione della triade legalità/giustizia/ partecipazione politica? Quale può essere il valore aggiunto della partecipazione delle donne alla politica? Forse quella di essere testimoni credibili di una legalità che serve, di una legalità che sia servizio e non serva dei poteri forti; è necessario fecondare la politica con il senso femminile della cura: la cura dell'ambiente, la cura dei soggetti più bisognosi di attenzione e di tutela. Dobbiamo aumentare il PIL: prodotto interno di legalità, di una legalità che sia impregnata di giustizia e partecipazione politica. Perché, come ci ricorda lo studioso Umberto Santino all’inizio del libretto: "Gli eroi continueranno a morire se gli uomini comuni non impareranno a vivere"
                                                                                                                 Maria D'Asaro 

venerdì 15 aprile 2016

Trivella sì, trivella no …


    Al di là della valenza emotiva suscitata dalle grandi questioni ambientali, pochi palermitani hanno contezza delle implicazioni energetiche legate al referendum del 17/4, quando ci verrà chiesto se limitare la durata delle autorizzazioni per le trivellazioni dei giacimenti marini di petrolio e gas naturale. Con la normativa attuale, le trivellazioni continueranno sino all’esaurimento del giacimento; se vinceranno i sì, la durata delle concessioni verrà limitata alla scadenza contrattuale. La questione fondamentale non è però connessa alle trivelle, ma all’indirizzo complessivo che si darà alla politica energetica dell'Italia: in particolare bisognerà vedere quanto il nostro Paese si impegnerà nell’auto-produzione di energia, per dipendere meno dall'estero, e quanto nel risparmio energetico e nella tutela dell'ambiente in generale.  Assumere solo la posizione NIMBY (Not In My Back Yard; nel nostro caso: non nel nostro mare), se non accompagnata da concrete proposte alternative di lungo periodo, rischia forse di confinarci nel limbo dell’immobilismo energetico.    
Maria D’Asaro:“Centonove” n. 15 del 14.4.2016

mercoledì 13 aprile 2016

Gabbiani

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

   Vincenzo Cardarelli (da "Poesie", 1942)

domenica 10 aprile 2016

Cui prodest?

Tre domande:

1) A chi giova l’intervista al figlio di uno dei più sanguinari mafiosi siciliani?

2) A chi giova continuare all’infinito la manfrina con gli inquirenti egiziani, che continuano a                 negare l’evidenza  riguardo all’atroce assassinio di Giulio Regeni?

3) A chi giova sapere che un’ex ministra abbia detto al suo (ex?) compagno di sentirsi trattata come         una “sguattera del Guatemala”?

  «Le definizioni qualificano i “definitori”, non i “definiti”» ha detto di recente all’Economist la scrittrice premio Nobel Toni Morrison.
La definizione «sguattera del Guatemala» ha richiamato nella mente di molti – ovviamente per contrasto – un altro premio Nobel (per la Pace, nel ’92), Rigoberta Menchu Tum. Migrante, bracciante, domestica, attivista dei diritti umani, Rigoberta ha ricevuto il riconoscimento per il suo operato volto a promuovere «la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene».
La parola “sguattero” (con la “s” iniziale rafforzativa di “guattero”) deriva probabilmente dal longobardo wathari, guardiano, e che questo termine ha la stessa radice della parola acqua in inglese, water. Nel senso etimologico del termine, è una sguattera Rigoberta e lo è chiunque agisca prendendosi cura della collettività e delle risorse, tutti i custodi dell’acqua e della terra. Che cos’è e come si qualifica chi utilizza in termine spegiativo questo termine lo spiega bene la stessa attivista guatemalteca nel suo “Mi chiamo Rigoberta Menchu”, quando racconta chi è «l’eletto» nella sua comunità.
«Forse la maggior parte delle cose che facciamo è basata su quel che facevano i nostri antenati. Per questo abbiamo l’eletto, che è la persona che riunisce in sé tutti i requisiti, ancor validi, che i nostri antenati sapevano riunire. È la persona più importante della comunità, i figli di tutti sono suoi figli, insomma è quello che deve mettere in pratica tutto quanto. E più di tutto, è il rappresentante dell’impegno nei confronti dell’intera comunità. In questo senso, quindi, tutto quel che si fa lo si fa tenendo presenti gli altri». (...) Se l’ex ministra e tanti di quelli che hanno governato e governano questo Paese avessero fatto propria la lezione della sguattera del Guatemala Rigoberta Menchu, oggi racconteremmo un’altra storia. E forse avremmo degli eletti (anche nel senso di scelti a seguito di regolari elezioni) per i quali «i figli di tutti sono i propri figli».
(da qui)

venerdì 8 aprile 2016

Le Sicilie di Pino Manzella


           La mostra pittorico-fotografica esposta a marzo a Palermo nell’ex Fonderia Oretea - cinquanta quadri del pittore Pino Manzella, amico e compagno di lotta di Peppino Impastato, e altrettante fotografie, eseguite da fotografi non professionisti dell’associazione “Asadin”- conferma le parole di Gesualdo Bufalino, secondo cui la nostra isola soffre di un “eccesso d’identità”: “le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle”. L’originalità della mostra è stata di unire tele e fotografie che ritraggono diversi sguardi sull’isola: intensi, complementari e ricchi di simboli. Manzella, che utilizza come base per i suoi quadri antichi documenti manoscritti, con la tecnica dell’acquerello e tecnica mista dipinge le innumerevoli Sicilie percepite dalla sua anima poliedrica di artista e intellettuale mosso da passione civile e politica. Le sue opere, metafore vibranti della storia chiaroscurale della nostra terra, pulsante di vita con le sue agonie e le sue rinascite, continuano a donarci emozioni e spunti di riflessione.
                                                                Maria D’Asaro: “Centonove” n. 14 del 7.4.2016, p.39
L'isola del corallo

L'isola legata
L'sola inchiodata
L'isola di Portella della Ginestra



giovedì 7 aprile 2016

La regalità del pudore

Amore e Psiche, A.Canova (1787)
     Il pudore non è la vergogna. Sia l’uno che l’altra spingono a ricoprirsi, ma mentre nel pudore lo scopo è quello di custodire la nudità come espressione dell’unicità e della vulnerabilità, nella vergogna si tratta di nascondere una nudità vissuta come limite o colpa. Per tale ragione, vergogna e pudore determinano significati e dinamiche differenti nel modo di vivere l’essere nudi e il vestirsi. (…) Perché il vestire sia ‘umano’ esso deve esprimere la regalità del pudore e non l’angoscia della vergogna. 
Il cammino che va dalla vergogna al pudore attraversa tre sentieri impervi. Il primo è quello di accettare il limite di cui la nudità è segno. In ogni corpo, infatti, sono come iscritte la creaturalità (abbiamo il corpo che ci è stato dato e non quello che avremmo scelto), la temporalità (il tempo cambia i corpi), la concretezza (nessun corpo ha la ricchezza di tutti i corpi). Il secondo riguarda il compito evolutivo di (ri)scoprire la bellezza della propria nudità al di là di ogni canone estetico. In questo senso la bellezza “salverà il mondo” se sarà riscoperta in ogni corpo, comunque esso si presenti. Il terzo cammino è quello di ritrovare l’interiorità: usciti dall’estetica dello sguardo (proprio e altrui) che scruta, valuta, rifiuta, si può entrare entro la propria pelle (estetica dell’esperienza) e abitare il proprio ‘corpo vissuto’ come declinazione prima dell’esserci.
Questi tre itinerari conducono alla scoperta del pudore, che è fatto di gratitudine e di chiarezza dei confini, propri ed altrui (…). Solo due nudità luminose, abitate e custodite con pudore, possono – come ci ricorda la Gestalt Therapy – sperimentare la pienezza del reciproco compenetrarsi.
                                                                                                                          (continua …)

Dal testo Sulla felicità e dintorni  di Giovanni Salonia, cap. “Psicologia del vestire” pagg. 46/47

mercoledì 6 aprile 2016

Psicologia del vestire

        (...) I vestiti sono inutili quando si è innocenti.  (…) Non sembra che sia il nudo in sé a creare problemi, ma gli occhi con i quali lo si guarda. Il vestirsi ha quindi un’intima struttura relazionale: ci si veste di fronte a qualcuno che, appunto per questo, viene definito estraneo. E, infatti, proprio nel momento in cui cambia la relazione con Jahvè che Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi e si vergognano. Il non essere più in comunione con Jahvè (diventato estraneo) fa emergere il bisogno del vestito. Nella relazione d’intimità (nella koinonia) la nudità viene accettata e può risplendere nella sua luce. Quando un uomo e una donna si donano l’un l’altra, la nudità dei loro corpi non viene vissuta con disagio, anzi esprime un’intima luminosità. Ci si accorge (e ci si vergogna) di essere nudi quando si è fuori da una relazione d’intimità: il giorno in cui il bambino al momento del bagnetto rifiuta la presenza degli estranei, ci rivela che è uscito dalla relazione comunionale tipica della fase evolutiva precedente e si è accorto di essere persona. E’ nato in lui il sentimento del pudore come custodia dell’unicità del suo corpo. Sia nella coppia che dopo aver fatto l’amore si riveste per tornare al mondo, sia nel bambino che non vuole più testimoni della propria nudità, il pudore nasce come frontiera che separa l’intimo dal sociale.                                            
                                                                                                                             (continua …)

      Dal testo Sulla felicità e dintorni  di Giovanni Salonia, cap. “Psicologia del vestire” pagg. 45,46

domenica 3 aprile 2016

Primavera dell'anima

Buoni propositi per una primavera dell’anima:

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com'è.
Mettersi vicino a coloro per i quali questo mondo è diventato intollerabile e ascoltarli.
L'unico sogno che vale la pena di vivere è vivere finché si è vivi
e morire solo quando si è morti.
Cosa significa esattamente?
Amare. Essere amati.
Non dimenticare mai la propria insignificanza.
Non abituarsi mai alla violenza indicibile
e alla volgare disparità della vita che ci circonda.
Cercare la gioia nei luoghi più tristi,
inseguire la bellezza là dove si nasconde.
Non semplificare mai quello che è complicato
e non complicare quello che è semplice.
Rispettare la forza, mai il potere.
Soprattutto osservare. Sforzarsi di capire.
Non distogliere mai lo sguardo.
E mai, mai dimenticare.

(da “Modi di vedere”, di John Berger, Pagine della ferita)  Ringrazio Slec che l’ha proposta qui.

Regala agli altri la luce che non hai,
la forza che non possiedi,
la speranza che senti vacillare in te,
la fiducia di cui sei privo.
Illuminali dal tuo buio.
Arricchiscili con la tua povertà.

Regala un sorriso
quando tu hai voglia di piangere.
Produci serenità
dalla tempesta che hai dentro.
"Ecco, quello che non ho te lo dono".
Questo è il tuo paradosso.

Ti accorgerai che la gioia
a poco a poco entrerà in te,
invaderà il tuo essere,
diventerà veramente tua nella misura
in cui l'avrai regalata agli altri.
                                                                         
   (letta nelle pagine FB delle amiche Lucia Comparato e Lucia Contessa, che ringrazio.)

venerdì 1 aprile 2016

Se vivere diventa un evento …

        Tutto per i vostri eventi! – recitava pomposamente il cartello posto davanti a un negozio di rosticceria, a Palermo. ‘Evento’ è il participio passato derivante dal verbo latino ‘evenire’, che significava ‘venir fuori’, e quindi accadere: è dunque un fatto che è accaduto o può accadere, venir fuori dall’indeterminatezza del caso. Oggi però il termine ha assunto in prevalenza il significato di evento rilevante e chiassoso. Così, influenzata dai modelli di vita esibiti dai media, ormai la gente non si accontenta più di vivere, ma ha bisogno di eventi: un incontro, un bimbo che nasce, un qualsiasi anniversario non sono più semplici tappe dell’esistenza, ma si trasformano in ‘eventi’, celebrati da video, foto e commenti su Facebook. Sarà una collezione di eventi a darci felicità? O non sarà piuttosto la qualità e l’autenticità che sapremo dare alle nostre relazioni, anche umili e nascoste, a rendere piena e felice la nostra vita?
      Maria D’Asaro:  “Centonove” n. 13 del 31.3.2016