venerdì 29 gennaio 2016

R come recensioni

Matisse: Donna che legge (1919)
       Prima di pubblicare la mia recensione n. 51 (50 i libri a oggi recensiti: 39 recensioni pubblicate su “Centonove” o in altri giornali, 11 solo nel blog) voglio rispondere a un’obiezione rivoltami qualche tempo fa da una persona a me cara: Come mai tutte le tue recensioni sono positive? Sono davvero così belli i libri che leggi? 
Prima però, voglio dire due cose: con i libri ho un particolare rapporto d’amore, trasmessomi da mio padre. Mio padre non riusciva a stare senza un libro in mano … E io neppure. Seconda cosa: ho recensito il mio primo libro per caso: mi ha “pressata” l’amico Augusto Cavadi (questo il link del suo blog) chiedendomi, se non ricordo male, di scrivere qualcosa su Lo chopin partiva,  un libro di cui avevamo chiacchierato insieme in un caffè/libreria di Palermo. Siccome il prof. Cavadi è affettuosamente tenace, in seguito mi convinse a scrivere anche di un altro testo: Messaggere di luci, per il mensile palermitano “Segno” con cui, dalla fine degli anni ’80,  collaboravo. La recensione in realtà non venne mai pubblicata da “Segno” – se dovessi dirvi perché ci sarebbe da ridere … - ma io nel frattempo ci avevo preso gusto. 
Così adesso recensisco per “prio” molti dei libri che leggo per mio personale interesse. 
Alla domanda: -  Come mai tutte le tue recensioni sono positive? Davvero sono così belli i libri che leggi? – rispondo così: Se un libro che ho letto è brutto, o - a mio avviso ovviamente - ha davvero poco di bello e interessante, o se non incontra il mio sentire profondo, semplicemente non ne scrivo. Non lo recensisco. L’unica eccezione - non me ne voglia l’autore – è stata per Cose che nessuno sa, recensione garbatamente non positiva. 
Poiché non ho mai percepito un centesimo per le mie recensioni (di professione sono una docente, non un critico letterario), mi sento libera di recensire i libri che voglio e quelli che mi piacciono particolarmente. Ad esempio, adoro David Grossman e ho recensito il suo splendido: Caduto fuori dal tempo. Ho poi recensito il premio Nobel Alice Munro, la cui raccolta di racconti: Nemico, amico, amante ... mi ha folgorata. Ovviamente la Munro e Grossman non sanno né sono interessati alle mie recensioni!
David Grossman
 
     Da qualche tempo trovo intriganti i principi della Gestalt Therapy e, del prof. Giovanni Salonia, ho già recensito Sulla felicita e dintorni e i come invidia, libri che – a mio avviso – sono dei veri gioielli. Alla recensione de Sulla felicita e dintorni e ad alcune altre (ad esempio: L'arte di annacarsi di Roberto Alajmo, e Il libro dell'ignoto di J.Keats) sono particolarmente affezionata perchè, per questi libri in particolare, sono riuscita a scrivere esattamente quello che volevo e "sentivo".
   Qualche malpensante potrebbe insinuare: ma come mai hai recensito tanti libri del prof. Cavadi? Perché sono utili e ben scritti. Leggeteli, se non mi credete. Ma, proprio in nome della stima e dell’amicizia che ci lega, non ho potuto fare a meno di sottolineare alcuni limiti di un suo saggio a più mani: Presidi da bocciare?
    Dicevo all’inizio che con i libri ho un rapporto particolare: ogni volta che leggo un libro è come se entrassi in contatto fecondo con il suo autore o la sua autrice. Per me è difficile, quasi impossibile, leggere due libri contemporaneamente: perché al libro che sto leggendo presto attenzione, interesse e “fedeltà” assoluti.   Leggere un libro, in qualche modo, m’ingravida sempre: recensirlo è il mio parto necessario dopo “aver fatto l’amore” con chi l’ha scritto; è il mio grazie per il dono di pensieri ed emozioni ricevuto.
E poi, poiché mi sono assegnata una "cornice" per ogni recensione  - sia che si tratti di un libretto di 85 pagine come Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli che di un tomo denso e complesso come Mosaici di saggezze del prof. Cavadi - ogni volta recensire un libro è anche una bella sfida a me stessa: riuscirò a scrivere qualcosa di compiuto, convincente e sensato in  50 righe e meno di 775 parole?
 
Il Prof. Cavadi and me durante la presentazione di "Mosaici di saggezze" - Palermo, Novembre 2015

lunedì 25 gennaio 2016

Singhiozzi

Van Gogh: Natura morta con statuetta di gesso e libri (1887)







Singhiozzi
di vita,
vecchi abiti logori
che non riscaldano più.
Via …                                

















domenica 24 gennaio 2016

Non saprete né il minuto né l’ora …

      A fine Dicembre a Palermo è partito il primo tram, non senza polemiche sul pesante costo del nuovo servizio pubblico (quasi diciotto milioni a chilometro), sulle incertezze relative alla ditta che si occuperà della sua gestione e sulle modalità di finanziamento del servizio, legate a una tassa sulle zone a traffico limitato: troppo bassa per scoraggiare davvero l’uso dell’auto, troppo aleatoria per assicurarne con certezza i proventi. Intanto, chi non vuole inquinare, chi vuole risparmiare sulla benzina o chi semplicemente non ha l’auto, continua a prendere gli autobus. E continua a domandarsi perché non possa pianificare il suo giro in città prendendo visione di quando passerà il mezzo pubblico che aspetta. Si chiede perché a Bologna, Udine  e  Milano ci siano le tabelle con affissi gli orari degli autobus e a Palermo no. Ma capisce purtroppo perché, nella classifica annuale 2015 delle 110 città italiane, Palermo occupi la posizione n.105.
                                                                            Maria D’Asaro:Centonove” n. 3 del 21.1.2016

giovedì 21 gennaio 2016

Quando in anticipo sul tuo stupore, verranno a chiederti del nostro amore ...

                     
        
“...pensavo: è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.»
(Fabrizio De André, Amico fragile)
Fabrizio Cristiano De André (Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999)  (...) considerato da parte della critica uno dei più grandi cantautori italiani di tutti i tempi viene spesso soprannominato anche con l'appellativo "Faber", datogli dall'amico d'infanzia Paolo Villaggio in riferimento alla sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell (vedi qui) (oltre che per consonanza con il suo nome) (fonte Wikipedia)
                    
Quando in anticipo sul tuo stupore/ verranno a chiederti del nostro amore/ a quella gente consumata a farsi dar retta/ un amore così lungo tu non darglielo in fretta”. Non è facile dimenticare i versi di Fabrizio De André mentre si va a trovare Dori Ghezzi nell’ufficio vicino a corso Magenta dov’è la Fondazione. «No, non sono per me», sorride lei che è ancora una bella ragazza bionda, dal fisico sottile e lo sguardo profondo.
Cantava Casatciok quando si incontrarono la prima volta a Genova, quasi cinquant’anni fa. «Vincemmo entrambi il premio Caravella nel 1969. Io con Il ballo della steppa, lui con Tutti morimmo a stento. Pensi che abisso».
Evidentemente non pesò.
«Fabrizio era già un mito, io una cantante arrivata al successo con una canzone popolare . Non so dire cosa vide in me. Ebbe fiducia nel suo istinto, nella chiarezza di quel nostro primo sguardo. Ci scrutammo a lungo, nel corso della serata. Deve essere reciproco, pensai. Però tutto finì lì».
L’attrazione fisica fu immediata. Anni dopo avrebbe scritto che il suo primo pensiero fu fare all’amore.
«Sì, un piacere fisico che andava oltre quello sessuale. Ci eravamo riconosciuti, come se ci appartenessimo da sempre. Ma la storia sarebbe iniziata qualche anno dopo, nel 1974, in uno studio di registrazione. Mi chiese il numero di telefono e l’indomani mi chiamò».
Sorpresa?
«Un po’, ma non troppo. Non cominciava un discorso ma continuava. Fabrizio s’impose con naturalezza, senza smancerie né sentimentalismi. E non mi faceva pesare la distanza. Era l’artista colto, il cantore di Brassens e Villon, eppure non l’ho mai visto in cattedra. Mi colpì per l’umiltà, sempre attento a valorizzare quanto di buono era negli altri. Anche con me riuscì a tirare fuori energie intellettuali che non sapevo di avere. Ma tra noi più delle parole facevano gli sguardi».
«I nostri sguardi s’incontrano volentieri, senza mai cogliere noia né risentimento ». Così raccontava il vostro amore.
«Sì, fin dal principio. Andammo a vivere nella casa di Milano dove stavo con i miei. Mio padre operaio, mia madre casalinga, mia sorella con mio cognato e i tre figli. Lui sembrava contento, come se avesse trovato il mondo che cercava, la vita autentica dei semplici dopo le avventure negli angiporti di Genova. Era in fuga dai formalismi della società altoborghese. Anche se nei modi Fabrizio non smise mai d’essere un signore».
Era un periodo particolare della sua vita?
«In famiglia le cose non andavano più tanto bene, il rapporto con la moglie Puny già esaurito. Sentiva il bisogno di lasciare Genova per vivere in un posto sperduto in campagna. Fin da subito mi trovai davanti a una scelta. E scelsi di seguirlo in Sardegna».
Il primo periodo non fu facile.
«Scappa fin che sei in tempo - mi dicevano i suoi amici. Rischi di farti male, non si separerà mai dalla moglie. Si poteva avere l’impressione che mi trattasse male, però io capivo che non era così. Era in lotta con se stesso, o con una parte di sé. Forse cominciava ad avvertire il potere che inconsapevolmente esercitavo, il potere dei sentimenti. Ho resistito. Spegnevo la sua lotta, disarmandolo. Pian piano ha scoperto la mia forza».
Era geloso?
«Sì, ma senza dirlo. Magari nel rapporto tra noi poteva chiudersi nella sua bolla e non ascoltarmi, ma se parlavo con altre persone captava ogni sfumatura, anche a distanza. In fondo era il suo modo per controllarmi. Anche se tra noi era grande il rispetto della reciproca libertà».
Non voleva essere scrutato nelle pieghe dell’anima. Lo disse apertamente: la storia con Dori contempla trasporto, fiducia e stima, ma non amicizia.
«Sì, diceva di aver lasciato una intercapedine, per non perdere quel piccolo mondo segreto che nutre la passione. Io in realtà non l’ho mai vissuta così. Credo che tra noi sia stata forte anche l’amicizia, che certo da sola non basta».
Come vi chiamavate tra voi?
«Bi e Bo. Lui era Bi, da Bicio, il nomignolo con cui veniva chiamato da piccolino. E io ero Bo. Un giorno gli chiesi: ma Bo perché? Bottana!, rise lui».
Non era così malinconico come traspare dalle sue canzoni.
«Poteva essere molto divertente».
Come reagì alla notizia che aspettavate un figlio?
«Come un uomo responsabile. Temeva di fare male alla prima moglie, al figlio Cristiano. Avvertii in lui dolore e imbarazzo. Me ne andai in Canada per permettergli di elaborare questo passaggio. Però non ho mai dubitato dell’amore di Fabrizio, del suo desiderio di avere una figlia con me».
Lui le è sempre stato riconoscente per averlo liberato dall’alcol.
«Io lo sostenni, sì, ma quello fu un impegno assunto davanti al padre. Giuseppe glielo chiese in punto di morte e mi resi conto che Fabrizio era pronto per quel passo. Era il segno d’una sua maturazione, d’un rapporto diverso con la vita».
Com’erano i suoi rapporti con la famiglia?
«Molto forti. Quando lo conobbi, aveva già risolto i suoi conflitti con il padre. E quando improvvisamente morì il fratello per un aneurisma, restò impietrito per diverse ore. Una statua. Mi spaventai».
E l’ingresso di Dori nell’alta società genovese?
«Il padre venne a Milano per conoscermi. Ci invitò a pranzo, molto cordiale. Mi versò da bere una prima volta. Poi una seconda e una terza. E io chiacchieravo, in totale libertà. A un certo punto disse a Fabrizio: vedi, lei mi piace, non scriverebbe mai una lettera anonima. Aveva capito che ero trasparente, non dovevo fare bella figura. Non indossavo maschere».
Alle maschere foste costretti in Sardegna, durante i centodiciassette giorni del sequestro.
«Fu terribile ma rafforzò il nostro legame. Ci proteggevamo a vicenda, in quell’equilibrio che solo l’amore conosce: quando l’uno si abbatte, l’altro si fa forte. All’inizio fu bruttissimo perché i cappucci ci impedivano di guardarci, e per noi lo sguardo era conforto. Così chiedemmo ai carcerieri di trovare una soluzione alternativa. Ritrovare gli occhi dell’altro fu come ritrovare la libertà».
Perché in Hotel Supramonte De André la definisce «una donna in fiamme »?
«Perché la fiammella della vitalità non fu mai domata. Davanti ai banditi non feci mai la vittima. E quando al mio primo cedimento – un pianto irrefrenabile – loro mi sbeffeggiarono, sparai parole di fuoco: ma come, sono figlia di operai, mi usate come strumento di ricatto e avete il coraggio di sfottere? Una reazione forte che colpì anche Fabrizio, che pure mi conosceva bene. E ci guadagnò il rispetto dei carcerieri».
Quale canzone racconta meglio il vostro amore? De André ha sempre detto che una in particolare gli è stata ispirata da lei, ma non ha voluto dire quale.
«Penso – dovrei dire spero! – sia Jasmina , la compagna che ciascun marinaio spera d’incontrare in ogni porto dopo le spericolate avventure in mare. Sono tante storie in una storia, e in fondo anche la nostra è stata così. E poi quella esplosione di erotismo che è giusto non si spenga mai».
Perché tante storie in una storia?
«Non abbiamo smesso di scoprirci. E non ci siamo mai annoiati. Lui aveva curiosità per me. La curiosità, diceva, è una prova profondissima dell’amore».
Ha qualche rimpianto?
«Negli ultimi mesi della malattia non mi sono mai mostrata fragile. Non gli ho mai pianto addosso tutto il mio amore, stringendolo tra le braccia. Ho mascherato la mia disperazione, pensando che per lui fosse meglio così. Ora mi manca quel momento condiviso di verità e dolore».
Avrà capito e le sarà stato grato.
«Chissà. Penso spesso a quella vecchia canzone che stava incidendo quando cominciò la nostra storia. Era “Valzer per un amore”. Quando carica d’anni e di castità, tra i ricordi e le illusioni del bel tempo che non ritornerà, troverai le mie canzoni … Eccomi qua, a ricordare e in fondo ad aspettarlo: sono sicura che prima o poi ci rincontreremo. Forse inconsciamente quel valzer era già dedicato a me». (da qui)






martedì 19 gennaio 2016

Il Lumpenproletariat oggi ...

Prima della recensione, ecco altre pagine tratte dall'ottimo testo di Davide MiccioneLumpen Italia - Il trionfo del sottoproletariato cognitivo (IPOC, Milano, 2015, €16,00)

(…) Lumpenproletariat, unione di due termini in cui il suffisso Lumpen (…) vale in italiano “straccio” o “cencio”, e rimanda a una famiglia di termini che non gli è da meno: da lumpig (misero, meschino) a Lump (mascalzone). (…) Per prendere sul serio il tanto sbandierato paradigma della società della conoscenza, sarebbe d’uopo aggiornare le mappe e caratterizzare le classi, o quel che ne resta, non più in base alla loro posizione all’interno del sistema di produzione. (…) Dovrebbe essere la conoscenza a stabilire le appartenenze, intendendo essa come dimensione di perimetrazione del reale, come capacità di produzione e comunicazione di se stessa, e inoltre come produttrice di ruoli e di diverse capacità di interagire con l’apparato sociale. Allora il vecchio sottoproletariato da manuale “costituito dagli strati inferiori della società, formati da lavoratori a bassa qualificazione, inoccupati o occupati in modo precario (…)”, se preso letteralmente non ha più molto da dirci.
Il gioco oggi è del tutto diverso e si svolge sulla capacità di comprendere i meccanismi della società contemporanea o esserne semplicemente oggetto. In una società che ti propone costantemente consumi al di sopra delle tue possibilità. La capacità di leggere i meccanismi del consumismo può essere molto più utile di cinquecento euro in più di stipendio mensile. O più sbrigativamente: “Il neoproletariato è uno stato dell’anima, non una condizione socio-economica”. Il sottoproletario, parte non irrorata della società, zavorra, è dunque il sottoproletario cognitivo, ormai più massa di manovra per le classi dirigenti, piuttosto che minaccia o problema.                         (pagg. 134,135)

        Non è vero che, comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo che le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua “accettazione realistica” è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti (…) 
La regressione e il peggioramento non vanno accettati; magari con l’indignazione e con la rabbia, che, contrariamente all’apparenza, sono, nel caso specifico, atti profondamente razionali. Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile. Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne ed ossa che lo circondano. Chi invece protesta con tutta la sua forza anche sentimentale, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama gli uomini in carne ed ossa.                     (Pier Paolo Pasolini, citaz. pag.18)


domenica 17 gennaio 2016

Nulla dies sine linea ... #2

8 gennaio 2016
La mossa del cavallo: il solo romanzo di Camilleri letto anni fa. Poi abbandonato perché la sua prosa era per me, allora, troppo dura, sanguigna, maschile. Ma ora so di non volere perdere l’intelligenza espressiva, poliedrica e acuta, tutta siciliana, di Andrea Calogero Camilleri: perderei un pezzo di me e della mia terra se non leggessi i suoi libri.

9 gennaio
Il nipote Plinio il Giovane, ci rappresenta lo zio – Plinio il Vecchio - come un uomo dedito allo studio ed alla lettura, intento ad osservare i fenomeni naturali ed a prendere continuamente appunti, dedicando poco tempo al sonno ed alle distrazioni. Il racconto della sua morte, contenuto in una sua lettera, ha contribuito all'immagine di Plinio il Vecchio come protomartire della scienza sperimentale (definizione di Italo Calvino), anche se, sempre secondo il resoconto del nipote, si espose al pericoloper recare soccorso ad alcuni cittadini in fuga dall'eruzione. (fonte: Wikipedia)

10 gennaio
Un gatto, per strada, miagola e zampetta malamente arrancando su tre zampe: la quarta racchiude tutto il dolore insensato del mondo.

11 gennaio
... I'm floating in a most peculiar way
and the stars look very different today ...
Planet earth is blue  and there’s nothing I can do….
(Forse ora, per dirla con le parole di Bob Dylan,  Dawid Bowie sta bussando alla porta del cielo ...)




12 gennaio
Amare è vegliare sulla solitudine dell'altro.
(R. M. Rilke, dalla pagina FB di Lucia Contessa che ringrazio)

13 gennaio
C’è un suono che non ci dà mai fastidio: il cinguettìo degli uccelli (dott. Peter ...)

14 gennaio
"Anche nel caso della nostalgia di un passato ‘bello’, si tratta di guardare al presente per vedere cosa vorremmo (e potremmo) avere adesso (di bello!) ma non abbiamo l’audacia di fare. Quando la nostalgia blocca il rapporto con il presente, o meglio con il now-for-next, è segno che stiamo perdendo un’occasione nel presente. La nostalgia, in ultima analisi, prende le mosse dal passato ma riguarda il presente. Cosa non riusciamo a fare nel presente? Questa è la domanda a cui ci porta l’ascolto del sentimento della nostalgia. In fondo, la nostalgia è dolore di un ritorno che è sempre e comunque ritorno a sé stessi, a quella parte di noi che è il nostro territorio (la nostra patria?) che rimane inabitato, o addirittura inesplorato."                
(Giovanni Salonia: Sulla felicità e dintorni:  p.152)

venerdì 15 gennaio 2016

Mario e Giovanna

Marc Chagall
   
     Giovanna e Mario si sono sposati a Palermo, nella chiesa di s. Francesco Saverio, il 27 dicembre 1990. Qualche settimana fa, nella stessa chiesa, hanno festeggiato quindi i loro primi venticinque anni di vita insieme. Mario e Giovanna hanno quattro figli, due maschi e due femmine, ai quali hanno donato affetto incondizionato, serenità e gioia di vivere. Che c’è di strano? – penserà a questo punto il lettore. La particolarità è che i quattro figli della coppia sono tutti adottivi, con un vissuto pregresso non facile. Nella nuova famiglia i quattro ragazzi hanno ritrovato il sorriso e la speranza di un futuro migliore. E il porto d’amore di Mario e Giovanna continua ad accogliere chi ha bisogno di protezione e carezze: dall’Ucraina, a fine mese, è in arrivo una quinta creatura. Ecco quale miracolo è capace di donare alla società una coppia che si ama davvero e condivide un progetto d’amore.


 Maria D’Asaro: “Centonove” n. 2 del 14.1.2016

mercoledì 13 gennaio 2016

Il blog delle buone notizie: Grazie, sig. Macchi ...

     Mi piacerebbe crearlo, magari non da sola: “Il blog delle buone notizie”. Non perché le cattive notizie non vadano conosciute ed analizzate, ma perché abbiamo bisogno di attingere forza, ispirazione e speranza soprattutto da ciò che di buono succede nel mondo. A mio avviso, un buon giornalista deve informare su tutto, ma deve dare spazio a tutto ciò che può edificare la nostra convivenza, enfatizzando i bei gesti – a  volte nascosti – di cui sono capaci gli esseri umani.
L'imprenditore Piero Macchi
“A Bodio Lomnago, il piccolo paese in riva al lago di Varese dove ha sede la Enoplastic, il Natale ha avuto un sapore diverso. Il lascito testamentario del fondatore della fabbrica, Piero Macchi, morto a 87 anni, infatti, è stata una vera sorpresa per i 250 dipendenti: quelli assunti da meno anni si sono infatti visti recapitare una busta con un assegno da 2mila, che è arrivato a 10mila euro per chi era in azienda da molti più anni. Un modo inedito da parte dell’imprenditore, deceduto a giugno, per accomiatarsi dai suoi dipendenti. 
Ha spiegato la figlia Giovanna: “Mio padre Piero Macchi ha disposto un lascito testamentario complessivo di un milione e mezzo di euro. Ha agito, come sempre, nella piena autonomia delle proprie decisioni, con la collaborazione di un notaio di fiducia e di un consulente del lavoro. E nel modo che riteneva più opportuno. Il tutto è stato gestito dalla moglie Carla, mia madre, che ha accompagnato le buste per i singoli dipendenti con una toccante lettera di ringraziamento”. "Forse a qualcuno il gesto ha cambiato la vita e questo era in fondo lo scopo del lascito”, ha rilevato ancora la figlia dell’imprenditore, il quale ha fondato la sua azienda nel 1957, poi ha ricordato: “Mio padre in vita ha fatto tanta beneficenza in maniera riservata, elargendo somme ad enti, ospedali e associazioni. Posso raccontare un episodio. Era malato da tempo. In una delle sue ultime trasferte per le cure a Varese si accorse che l’ambulanza non era in buono stato. Quando arrivammo in ospedale, disse ai volontari: ‘Se vengo fuori anche stavolta, vi compro l’ambulanza nuova’. Ne venne fuori, perché era un uomo forte, e la prima cosa che fece fu proprio comprare l’ambulanza nuova”. (da www.direttanews.it)

lunedì 11 gennaio 2016

Nulla dies sine linea ... #1

Nulla dies sine linea (latino: «nessun giorno senza una linea»). – Frase attribuita da Plinio (Nat. hist. XXXV, 36) al pittore greco Apelle (sec. 4° a. C.), del quale si dice che non lasciasse passare giorno senza esercitarsi.
Prendendo spunto da questa frase latina, proverò a socializzare, una volta a settimana, frasi, riflessioni, eventi che, ogni giorno, mi "hanno segnata".
1 gennaio 2016: 
Tutte le azioni di una giornata sono precedute e condizionate da un verbo: devo, voglio, mi piace, sullo sfondo però di un altro verbo: posso davvero? Dalla scelta, dalla combinazione o dalla prevalenza di uno di questi verbi, sull’ordito di una reale possibilità, dipende gran parte della nostra vita.
Salvatore Carnevale
2 gennaio:
Il 16 maggio 1955, alle 5,30 del mattino, mentre si recava a lavorare in una cava di pietre, il sindacalista socialista Salvatore Carnevale fu ucciso perché dava fastidio a proprietari terrieri e mafiosi. Sua madre dirà ad amici e parenti che nel corso della notte aveva fatto un brutto sogno. 
Forse nella nostra anima non ci sono confini o passato, presente e futuro: la nostra anima racchiude tutte le dimensioni temporali. 
3 gennaio:
Ogni essere umano è un museo, come il Louvre: dovremmo accostarci agli altri convinti che sono custodi di tesori (fonte: mio figlio Luciano)
4 gennaio:
L’impero romano era strutturalmente fondato su una costante crescita territoriale; si ingrandì sino al 130 d.C. circa, ai tempi dell’imperatore Adriano. Poi fu decadenza e catastrofe. Anche l’economia capitalista è strutturalmente fondata su una costante crescita economica. I decrescentisti – Ellul, Latouche, Pallante – che affermano l’incompatibilità di questo modello con la quantità delle risorse mondiali e con l’equilibrio ecologico – sono portatori sani di una scomoda verità. (fonte: mio figlio Riccardo)
5 gennaio:
Oggi Peppino Impastato avrebbe compiuto 68 anni. Ogni anno, in questo giorno di inizio anno, lo ricordiamo. La sua “assenza fisica” rappresenta un vuoto difficile da colmare. Tanto tempo è trascorso, ma la mancanza è ancora viva e reale come in quel lontano 9 maggio 1978. Da, allora, la forza delle sue idee e delle sue azioni ci accompagna. (dalla pagina FB di Pino Manzella)
6 gennaio 2015:
Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All'umanità che ne scaturisce. A costruire un'identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell'apparire, del diventare.... A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E' un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco. (Pier Paolo Pasolini)
7 gennaio:
Come ti senti, al rientro dalle vacanze? - chiede la docente agli alunni: Assonnata, disperato, traumatizzata, annoiata, depresso, avvilita … Come si sentono i docenti al rientro delle vacanze natalizie? Da dove possono attingere energie, valori, motivazioni, smalto per fare bene il loro difficile lavoro nell’Italia di oggi?

domenica 10 gennaio 2016

Talvolta





Talvolta  
La folla
Dei troppi assenti
Inciampa nei miei pensieri
Smarriti                                          

venerdì 8 gennaio 2016

Vedo, sento, scrivo …


Pippo Fava
     « Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. » 
     Ecco cosa scriveva nel 1981 Pippo Fava, ucciso dalla mafia il 5/1/1984. Prima e dopo altri giornalisti in Sicilia – Mauro De Mauro, Mario Francese, Beppe Alfano, per citarne alcuni - hanno pagato con la vita l’impegno etico e civile. Nel 2015 purtroppo sono stati 110 i giornalisti uccisi nel mondo, i due terzi  dei quali in paesi non in guerra. “Infelice quella terra che ha bisogno di eroi” - non ci resta che ripetere con Brecht …


                                                                             Maria D’Asaro: “Centonove” n. 1 del 7.1.2016

mercoledì 6 gennaio 2016

L'Epifania tutte le feste porta via?

L’Epifania tutte le feste porta via. Ma è davvero così?
Ecco cosa scrive Augusto Cavadi in "Mosaici di saggezze"

Le dimanche, Marc Chagall, 1954
Senso della festa (pag. 258-259)

            Vivere è lavorare; se è necessario, lottare. Nell’uso linguistico della mia terra, il verbo ‘combattere’ ha una strana bivalenza semantica: significa “fare la guerra”, ma anche “faticare per far fronte alle difficoltà di ogni giorno”.  La spiritualità filosofica (…) non è evasione dall’impegno lavorativo né fuga dai conflitti inevitabili. Dobbiamo aggiungere che essa è attraversamento e superamento di questa dimensione  quotidiana, ordinaria: perché il senso del negotium è nell’otium, il senso della fatica nel riposo, il senso dei giorni feriali nella giornata della festa (vedi note). Scrive P. Valadier “E’ forse esagerato affermare che l’azione perde il suo peso e la sua realtà senza la contemplazione, che il lavoro diventa una fatica massacrante e insensata senza il tempo dello svago e del riposo? Dunque senza questo respiro propriamente spirituale che assicura il rispetto del Sabato (della Domenica in termini cristiani), in cui la creatura vive la propria esistenza in modo diverso da quello di un bisognoso servo della gleba?”
Anche da questa angolazione, però, la spiritualità filosofica è radicata in profondità esistenziali accessibili a chi ho lo sguardo acuminato. Se (alla scuola di Marx, ma oltre lui) intendiamo per “proletarietà” il “vincolarsi al processo del lavoro” in maniera totale, è chiaro che tale condizione appartiene  al “salariato ‘nullatenente’, che non possiede nulla, e perciò è costretto ad alienare stabilmente la sua capacità di lavoro”, (…) e, infine, nei regimi liberaldemocratici, a colui, dipendente o indipendente che sia dal punto di vista del processo produttivo, il cui ‘spazio vitale’ è interamente occupato dal lavoro, perché questo ‘spazio vitale’ è internamente vuoto (…). Ebbene, se questa è la proletarietà come condizione antropologica, essere capaci di festeggiare significa essere capaci di de-proletarizzarsi. Ossia maturare le difese interiori dai rischi di una proletarizzazione forzata, difese che ovviamente non sostituiscono, anzi rendono più efficaci, le precauzioni politiche. Celebrare la festa significa  - che lo si sappia o meno – operare per l’emancipazione da molte forme di schiavitù e anticipare, per così dire profeticamente, il giorno della liberazione finale. 
     C’è di più. Fare festa davvero è possibile, ben al di là del vestito buono o della fruizione dell’industria del divertimento, a chi è convinto di essere dentro la danza cosmica di un eterno ritorno dell’uguale; ma, ancor più agevolmente, a chi – invece – è convinto che “l’esistenza, inesorabilmente, non ha luogo che una volta sola, per poterla successivamente festeggiare in ciò che ha di unico e di insostituibile.” Quale che sia la nostra concezione del tempo (ciclica o lineare), non c’è festa senza la doppia, inscindibile, armonia con se stessi e con l’universo: “Celebrare una festa vuol dire: aderire all’intima costituzione del mondo, inserirsi nel flusso armonico della sua realtà, farsi parte della sua struttura, vivendo una vita che sia diversa dal monotono andamento di ogni giorno, raggiungendo così il proprio compimento, il proprio perfetto sviluppo.”
          Certo, dopo la lezione di Darwin, non è facile qualificare come “armonico” il “flusso” del mondo (…).  Può quindi celare un significato simbolico l’atavica decisione di celebrare una festa solo a conclusione di sei giorni di fatica, tensioni e sofferenze. Chi non conosce la ferialità, prosaica e a tratti lancinante, dei ritmi quotidiani (…) non proverà mai il piacere intenso della festa.  Fernando Savater sottolinea il legame inscindibile fra saggezza filosofica e allegria: “Che cos’è l’allegria? La constatazione gioiosa che la cosa più grave che poteva capitarci (dico “grave” non solo nel senso di penoso o sventurato, ma anche in quello di importante,serio e inoppugnabile) ci è già accaduto alla nascita; pertanto il resto dei casi che ci succedono o che ci attendono non possono essere di grande rilievo. Abbiamo avuto fortuna, non in concreto buona o cattiva sorte, bensì la possibilità di entrambe: nel sorteggio definitivo ci è toccato l’essere invece del non essere.” Sicuramente ci viviamo questa “fortuna” camminando  - per riprendere un’immagine di Kierkegaard – come l’acrobata su una corda che sorvola l’abisso della morte. Ma proprio perché la morte è “fatalità e controsenso” abbiamo bisogno “di libertà e di senso”; di un’allegria sapienziale che ci motivi verso “l’arte, la poesia, lo spettacolo, l’etica, la politica e persino la santità” (…)     
      L’uomo  ben fatto, affermava già Diogene il Cinico, “celebra una festa ogni giorno”. Ma opportunamente Plutarco, dopo aver richiamato Diogene, declina al plurale il soggetto: “E’ una festa splendida se siamo virtuosi”. Quasi a voler precisare che non si può festeggiare da soli in un mondo di ignoranti e di malvagi: ci sono esperienze gratificanti che si possono vivere solo in un contesto sociale adeguato. Se non ci fossero altri motivi, già questo sarebbe un motivo sufficiente per non disinteressarsi della rozzezza morale altrui e per impegnarsi, delicatamente, a  contagiare il desiderio della saggezza e della rettitudine.

(Sintesi delle note n.815 e 816 del testo : a)Joseph Pieper sviscera e commenta a lungo l’asserzione di Aristotele  nell’Etica a Nicomaco (10,7)  “noi siamo operosi, per avere otium” , contrapponendola alla frase del conte Zinzendorf  (che secondo Max Weber sintetizza bene lo spirito del capitalismo): “Non solo si lavora per vivere, ma anzi si vive per lavorare:
b) Se feria significa in latino giorno di riposo e di festa (e anche in italiano andare in ferie significa andare in vacanza, interrompere le attività lavorative abituali), come mai l’aggettivo feriale viene adoperato per indicare i giorni diversi dalla domenica e dalle feste solenni? Ciò lo si deve all’influenza del calendario cattolico secondo il quale, dopo l’evento Cristo, saremmo in “una festa perenne, sempre in atto, tanto che la stessa giornata ordinaria si dice feria ed è tale: la liturgia conosce soltanto il giorno festivo” (Pieper, “Otium” e culto, p. 84).


lunedì 4 gennaio 2016

Lumpen Italia: come resistere all'ignoranza ipermoderna

Lumpen Italia - Il trionfo del sottoproletariato cognitivo  di Davide Miccione (IPOC, Milano, 2015, €16,00): testo illuminante, per capire dove stiamo andando. E per organizzare una resistenza contro le orde degli ignoranti ipermoderni.  (Seguirà recensione …)

Per anni si è data per acquisita e scontata la cultura umana (come per altri versi si è data per scontata la democrazia) incorrendo in uno degli errori più nefasti che si possa immaginare. Meglio tener presente … che la cultura come l’abbiamo sinora conosciuta è il risultato di una lotta feroce contro le circostanze, ma soprattutto contro tendenze implicite nello stesso uomo.
Questa lotta ricomincia ogni giorno perché ogni giorno nascono uomini e, scusate l’ovvietà, nascono senza saper parlare, capire una lingua, far di conto, saper leggere, saper scrivere. Questo fatto andrebbe tenuto presente come un comandamento. Basterebbe in fondo uno sciopero assoluto della trasmissione del sapere per vent’anni per perdere tutto e retrocedere al paleolitico.
Pensare che un uomo che legga, scriva, studi, possa pensare allo stesso modo di chi non ha mai letto nulla è una sorta di razzismo al contrario e sputa in faccia alla fatica che la cultura e la conoscenza hanno rappresentato nella vita di ognuno (…) “L’uomo rinuncia alla conquista della visione alfabetica nel momento in cui, con lo smisurato crescere dell’informazione mediata dall’orecchio e dalla visione non-alfabetica, ha avuto l’impressione di fonti di conoscenza ugualmente ricche. Ha così, forse, rinunciato a una conquista evolutiva che la scrittura aveva stimolato per fare un passo indietro. E’ quasi come se si lasciasse da parte la visione alfabetica – un 'medium' pieno di tensioni e di fatica – per tornare a 'media' più naturali, più primitivi, di minor governo.” (Raffaele Simone: La terza fase – Forme di sapere che stiamo perdendo, p. 26,27).
Un habitus critico, che in misura minima è necessario per qualsiasi democrazia, si edifica con fatica e con ulteriore fatica lo si estende (…) contro abitudini, tabù, idee ricevute talmente antiche da non essere ormai neppure percepite. La lettura è una forma di realizzazione 'antropotecnica' dell’umano, su di essa abbiamo edificato la nostra civiltà e se abbiamo iniziato a non vedere più questa radice è solo perché è diventata una presenza ovvia. E’ adesso il caso di ricominciare a vederla e, se si dà il caso, a difenderla; diventa necessario cogliere cosa questa forma di vita dà e cosa toglie all’uomo. I non lettori e i lettori non pensano nello stesso modo. I secondi da tempo “si abituarono a un contatto con testi di natura più atomistica e individuale di quella che era tipica degli ascoltatori: si ascolta in compagnia, si legge in solitudine. D’altro canto, si diventò più sensibili ad avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio” (R.Simone: La terza fase p.24).
(…) Se il sequenziale scompare a favore del simultaneo, crolla la capacità del progettare. Resta l’appagamento immediato e questo ci porta dentro il tempio del dio consumo (…). Se il sequenziale scompare si ricomincia sempre daccapo, è l’eterno presente che rende inutile l’esperienza, dunque la cultura e la memoria. Rende inutile anche la responsabilità per le cose, che si svolge nel tempo, nel venire chiamati a rendere conto di ciò che si era detto, fatto, previsto o promesso.
                       (Da Lumpen Italia - Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, pp.168,169)