venerdì 29 maggio 2015

Montalbano sono …

      Di solito, il nome Montalbano evoca il celebre commissario creato dalla fantasia feconda di Andrea Camilleri e impersonato per la fiction televisiva da Luca Zingaretti. Ma adesso se a Montalbano uniamo Elicona, indichiamo il comune italiano in provincia di Messina assurto agli onori della cronaca nazionale perché, a seguito della gara televisiva promossa dalla nota trasmissione di Rai Tre «Alle falde del Kilimangiaro», è risultato il borgo più bello d’Italia, tra i  40 borghi concorrenti. Montalbano Elicona è un paesino a 907 metri sul livello del mare, circondato da boschi secolari, con un panorama mozzafiato da cui si ammirano il mare, le isole Eolie e l’Etna. Il centro storico è ben conservato; non manca un castello del XIII secolo, che risale al periodo svevo-normanno. L’auspicio è che, con un po’ di buon governo e di fortuna mediatica, anche altri borghi siciliani possano godere, come Montalbano Elicona, di una felice rinascita.  
                                                                    Maria D’Asaro,Centonove” n.4 del 28.5.2015

domenica 24 maggio 2015

Il Piave mormorò ...

Subito dopo lo scoppio della I guerra mondiale (agosto 1914), in Italia si erano formati due schieramenti: i neutralisti e gli interventisti
Al gruppo dei neutralisti appartenevano i socialisti, i quali ritenevano che la guerra fosse voluta dalle grandi potenze europee imperialiste e capitaliste, ma il loro schieramento era isolato e la loro posizione era indebolita dalle posizioni interventiste dei socialisti europei; i cattolici, che seguivano l'orientamento dato dal pontefice che si schierò contro la guerra, anche se rimaneva ancora il contrasto tra l'obbligato neutralismo dettato dalla Chiesa e la lealtà allo Stato di cui facevano parte; i giolittiani, i quali sostenevano che l'Italia non era preparata a sostenere una guerra che sarebbe durata molto tempo e richiesto numerose risorse economiche e militari. Giolitti riteneva che l'Italia avrebbe potuto ottenere numerosi vantaggi senza la guerra, indicando l'opportunità di contrattare la neutralità come se fosse una vittoria. 
Allo schieramento degli interventisti appartenevano gli "interventisti democratici" e i "socialisti riformisti", sostenitori i primi di una pronta cessione delle terre irredente mentre i secondi ritenevano che solo sconfiggendo gli imperi centrali si potevano sostenere le aspirazioni di indipendenza nazionale e di democrazia dell'Europa intera. Un ruolo importante fu dato dagli esponenti del sindacalismo rivoluzionario guidato da Mussolini, che, criticando la posizione dei socialisti italiani, credeva nella prospettiva rivoluzionaria generata dalla sconfitta degli imperi centrali; i nazionalisti che vedevano nella guerra la possibilità di sostenere le ambizioni espansionistiche; i liberali conservatori, che vedevano nella guerra la possibilità di dare al parlamento poteri straordinari tali da annullare le riforme giolittiane, inoltre ambivano a riottenere i territori del Trentino e Trieste e a far acquistare all'Italia lo status di grande potenza. (da qui).
100 anni fa, il 24 maggio 1915, anche l’Italia entrò in guerra, dopo un disinvolto girotondo di alleanze. La guerra, definita inutile strage dal papa Benedetto XV, causò nel nostro paese 651.000 morti tra i militari e un numero quasi pari tra i civili (589.000) (da qui)

(Della prima guerra mondiale so tantissime cose, perché mio nonno l'ha combattuta in trincea ed è tornato vivo. Ma quando mi raccontava del rancio, della ferita che gli ha salvato la vita, della parola d’ordine che una volta ha dimenticato col rischio di essere freddato da una fucilata, io avevo solo dieci anni, non prendevo appunti e non avevo un blog.
Vorrei tanto che la guerra diventi al più presto un tabù, come il cannibalismo e l’incesto.)

venerdì 22 maggio 2015

L’ISIS di casa nostra …

    Abbiamo provato orrore per le decapitazioni di ostaggi, le stragi di Parigi e di Tunisi: crimini compiuti dai seguaci dell’ISIS, il cui efferato fanatismo ci appare lontano anni luce. Eppure sono passati solo pochi decenni da quando, in Italia, le Brigate rosse assassinarono un centinaio tra magistrati, poliziotti e uomini politici, rei solo di rappresentare le istituzioni dello stato. Tra essi Aldo Moro, ucciso senza pietà dopo una lunga prigionia. E in Sicilia, sebbene negli ultimi anni operi con intimidazioni meno eclatanti, Cosa nostra si è macchiata di migliaia di crudeli assassini, sino alle autobomba del 1992 che uccisero i giudici Falcone e Borsellino e gli uomini di scorta. Non si vuole certo fare paragoni inopportuni,  ma forse solo la consapevolezza della sacralità di ogni vita umana, la scelta della nonviolenza come braccio sano della politica e della società, può metterci al riparo dalle carneficine di ogni credo e colore.
                                                                         Maria D’Asaro,Centonove” n. 20 del 21.5.2015

martedì 19 maggio 2015

I dintorni della felicità

     Parafrasando il Calvino delle Lezioni Americane, possiamo dire che l’autoironia è una delle qualità che ci rende «leggeri» a noi stessi e «leggeri» anche per gli altri. Chi si prende in giro ha un passo lieve, cadenzato, non si ostina e non si attarda su ciò che non lo merita: come l’angelo del proverbio americano, sa dove correre e dove esitare. Molti ingredienti compongono la freschezza e la valenza ‘terapeutica’ dell’autoironia, questo sguardo sapiente e divertito su sé stessi. Il sano prendersi in giro esprime, innanzitutto, un atteggiamento disteso, riconciliato. Non si può sorridere di sé stessi con pienezza se si è preoccupati o agitati: per aprirsi al sorriso (perché di apertura si tratta) bisogna aver maturato nel cuore una profonda riconciliazione con la propria realtà e con la vita. Anche chi soffre riesce a sorridere nella misura in cui ha accettato profondamente la sofferenza. Nell’autoironia, inoltre, si manifesta la capacità di porre tra noi e le cose una distanza ottimale, che rivela il superamento dell’egocentrismo e un’acquisita saggezza di vita.

(Giovanni Salonia Sulla felicità e dintorni, pag. 96, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2011, € 16,00)

sabato 16 maggio 2015

Se la felicità danza col tempo

Chagall: Le coq rouge
  Appartiene alla nostra esperienza di uomini sentire il tempo come nemico della felicità. La felicità infatti sembra opporsi al tempo perché pretende come garanzia l’eternità. Si può parlare di felicità se questa non dura? (…) L’uomo può essere nello stesso tempo felice e mortale?
Felice di vivere e padrone di sé
è chi al cadere di ogni giorno potrà dire:
Ho vissuto. Domani il Padre
avvolga pure il cielo di nubi oscure o sereno 
l'accenda il sole, non renderà mai sterile 
il mio passato e non potrà mai cancellare 
come se per me non fosse accaduto
ciò che l'attimo fuggente mi ha portato. 
     Orazio ci invita a pensare che quando la felicità accade, ci segna per sempre, ci impregna di eternità. (…) C’è quindi un passato di felicità e un’attesa di felicità che, inevitabilmente, segnano ogni presente. Partiamo dal passato: se la felicità vissuta è stata genuina non scompare, rimane e segna in modo indelebile il nostro animo. (…) La felicità non si dimentica, anzi trasforma  irrevocabilmente il mondo interiore. Come nelle antiche case ortodosse in Russia c’era l’angolo della bellezza (con le icone che la rendevano presente), così in ogni mondo interiore ci sono ‘i luoghi della felicità’: esperienze di luce e di calore che sono sempre presenti nella mente, o come figura o come sfondo. (…)
     Come mai, allora, i ricordi diventano a volte strazio di nostalgia che rende ancora più greve il buio presente? Forse la nostalgia più pericolosa non è quella della felicità che si è avuta, ma della felicità mancata, cioè del gesto incompiuto, della parola non detta o non ascoltata. La nostalgia mi dice, forse, che ‘qui e adesso’ sto bloccando il mio organismo, mi sto impedendo di fare o di dire qualcosa che possa riaccostarmi alla felicità.(…)  Ogni volta che la felicità ci colpirà con la sua freccia dorata, trasformando il tempo in eternità, noi non sapremo mai se è stato il sole di oggi o l’uragano di ieri a preparare il cuore. Non ci sono ricette. Forse nella fatica agrodolce del cercare è il germe della felicità sempre sospesa tra arte e scienza, tra fortuna e fatica, tra espirare e inspirare.
      E’ vero. La felicità accade ad intermittenze non prevedibili, ma quando accade, la sua luce rimane. Ed è altrettanto vero che la felicità, quando non accade, è in gestazione. “Chi vi impedisce – suggerisce il poeta – di vivere la vostra vita come un bello e doloroso giorno nella storia di una grande gestazione?” Si sa, le gioie fecondano, ma i travagli portano alla luce la vita.
Forse attorno a questo fuoco possiamo ritrovarci compagni di viaggio. 
                Giovanni Salonia  (Sulla felicità e dintorni, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2011, € 16,00)


giovedì 14 maggio 2015

Che cosa ci nutre?

Cena di Emmaus (Caravaggio, Londra)
        A poche settimane dall’apertura dell’Expo, l’esposizione universale su cibo e alimentazione, ecco alcune significative notazioni dello psicoterapeuta Giovanni Salonia (dal saggio “Sulla felicità e dintorni”): “Il nutrirsi è un’esperienza decisiva per la sopravvivenza. Il cibo si colloca tra la vita e la morte: senza cibo non c’è futuro. Il cibarsi coinvolge il corpo e l’anima (…). Il modo in cui ci si rapporta con il cibo dipende ed esprime il modo in cui ci si relaziona col mondo. Alla base c’è una connessione: quella del cibo con i legami affettivi, con la relazione. Si tratta di un imprinting proprio degli umani, i quali apprendono a cibarsi come esperienza relazionale che intreccia il corpo di chi mangia, il corpo di chi nutre e il tempo (…). Sottrarsi alla dimensione relazionale trasforma il cibo in veleno (…) Il pane nutre se mangiato in un clima relazionale, cioè nella gratitudine e nella compagnia.”
                                                                          Maria D’Asaro, “Centonove” n. 19 del 14.5.2015

domenica 10 maggio 2015

Sindrome del nido vuoto

Riccardo e Luciano, Luglio 2001
        Sapeva bene che sarebbe capitato, prima o poi. Che i figli se ne sarebbero andati di casa. 
Scrive Giovanni Salonia, nel prezioso “Sulla felicità e dintorni”: “Mettersi in cammino, uscendo da casa, è un’altra esperienza che l’uomo avverte come decisiva per la propria pienezza (…). Chi si mette in viaggio lascia la sicurezza e il calore della casa, del dentro, per esplorare, per conoscere il fuori. Lungo la strada si impara ad affidarsi: al vento, ai mezzi di trasporto, agli imprevisti. (…) La strada è anche il luogo dove non c’è protezione ma neppure controllo, dove ci si esprime nella verità del cuore … al di là delle sovrastrutture della paura o dell’immagine. Nella strada si incontra il nuovo, che allarga e arricchisce la mente e il cuore. La strada porta verso altri mondi, verso altre poleis. (…)Dopo aver dimorato lungo le strade si ritorna a casa con occhi nuovi. Qualcosa è definitivamente cambiato: si sono visti i limiti e anche le ricchezze del proprio mondo (…). Il camminare è inscritto nella struttura stessa della crescita umana. (…) La vita è un cammino: solo se con paura e coraggio percorreremo le strade che ci si aprono davanti, potremo gustare in pienezza il mistero dell’esistenza al quale siamo stati consegnati.”
     Anche se a lei il cuore faceva male, ai figli in cammino mari di abbracci e benedizioni.

venerdì 8 maggio 2015

Super presidi per miniscuole

    L’ampia partecipazione dei docenti palermitani alla protesta contro il Ddl ”La buona scuola” dimostra la distanza tra i veri bisogni del mondo della scuola e le idee di riforma dell’attuale governo Renzi. Tra gli articoli più contestati del Ddl c’è quello che prevede maggiori poteri ai dirigenti scolastici che, all'interno di albi territoriali, potrebbero scegliere i docenti da inserire nella “loro” scuola e, sentito il Consiglio di Istituto, assegnare un bonus annuale delle eccellenze destinato però solo al 5% degli insegnanti, sulla base di presunte qualità dell'insegnamento, della capacità di utilizzare metodi didattici innovativi e del contributo dato al miglioramento della scuola. Era questa la scuola dell’autonomia delineata dalla legge 59/1997? E’ di un preside manager con super poteri quello di cui ha davvero bisogno la scuola italiana? Scopiazzando modelli esteri, fallimentari anche nei paesi di provenienza, non rischiamo invece di rendere la nostra scuola ancora più marginale e caotica?
                                                   Maria D’Asaro:Centonove” n. 18 del 7.5.2015

mercoledì 6 maggio 2015

Mia madre

   
        Anche con Mia madre – come già con Palombella rossa, Caro Diario, Aprile, Il Caimano -  Nanni Moretti conferma la sua originalissima collocazione nel cinema italiano, quella di maestro dell’”autobiografia a sfondo sociale”. In Mia madre infatti, sullo sfondo della storia dell’Italia di oggi, quella delle fabbriche che chiudono e dei disoccupati che protestano, in primo piano emerge - come il regista stesso ci ha confermato in un'intervista - la sua vicenda autobiografica, filtrata da un palese e ben riuscito gioco di rimandi costruito con l’attribuzione di tratti “morettiani” alla protagonista Margherita, una sorta di “alter ego” al femminile. Attraverso questo felice espediente narrativo,  Nanni continua a parlarci di sé e di noi, dei suoi lutti e delle nostre fragilità, con una competenza e una precisione quasi chirurgiche. Il Moretti che emerge dalla pellicola è un Moretti crepuscolare: nelle poche scene girate di giorno c'è un cielo coperto o senza colori; le altre sono poco illuminate, spesso sono scene d’interni - tante le stanze ospedaliere - ambientate quasi sempre di sera, di notte o all’alba. 
   In Mia madre, Margherita/Nanni si pone domande esistenziali, senza darsi risposte definitive: come saldare e mettere insieme la sfera personale e quella pubblica, la finzione e la realtà, il peso dei sogni e dell’inconscio e la consapevolezza della ragione, l’essere e il dover essere?  Ma questa robusta cornice di pensiero non rende affatto il film pesante o noioso: il regista è bravo nell’incarnare gli interrogativi nella vita quotidiana di Margherita e nel conferire alla vicenda un buon ritmo narrativo. Così ci cattura e ci commuove la storia della regista di successo che sta lavorando a un film importante, mentre è alle prese con i problemi adolescenziali della figlia, con una recente separazione e soprattutto con la difficoltà di accettare la grave malattia della madre. 
    Potremmo affermare che Mia madre è anche o soprattutto un film sulla “mancanza”, sulle “dimissioni” volute, cercate o forzate: vorrebbe dimettersi da attore il famoso attore americano Barry Huggins (John Turturro), che nel film interpreta la parte dell’imprenditore straniero che compra una fabbrica italiana e licenzia molti operai; vorrebbe dimettersi da regista impegnata e dal suo legame sentimentale la protagonista Margherita; vuole dimettersi dal lavoro di ingegnere suo fratello Giovanni (Nanni Moretti); vuole “dimettersi dal liceo classico” Livia, la figlia della regista. Di contro, non vorrebbero perdere il lavoro, non vogliono “dimettersi” affatto gli operai della fabbrica; non vorrebbe “dimettersi” dalla relazione affettiva Vittorio, il compagno di Margherita; non vorrebbe dimettersi dalla vita la madre di Margherita.
     Ma alla fine, sebbene molte dimissioni siano purtroppo dolorosamente inevitabili, il film – e qui sta la maestria del regista – ci consegna una certa inattesa dolcezza, suggerendoci che se permettiamo agli altri di farci da specchio, se comprendiamo di non potere tenere tutto sotto controllo, meno che mai le relazioni e gli affetti, se, sfuggendo alla tentazione del delirio di onnipotenza, ci consegniamo al nostro limite e alle nostre imperfezioni, saremo forse capaci di accettare lutti e inevitabili sconfitte e ci apriremo alla possibilità di una pacata, imprevista consolazione.
                                                                                             Maria D'Asaro
                                                                        

domenica 3 maggio 2015

La zingara and me

     E’ avviluppata in una gonna lunga sino alle caviglie e in un maglione che si tramuta in una sciarpa, i piedi sono cinti da calzature che non sai se definire scarpe o pantofole. L’ovale bruno del volto, incorniciato da un’arruffata capigliatura castano/ramata, ha zigomi appena accentuati. Potrebbe avere vent’anni, ma anche dieci di più. Sta davanti a un bar, appoggiata a un muretto sbrecciato; incrocia il mio sguardo di donna e chiede, per favore, una moneta. Non c’è troppa convinzione nella sua richiesta: solo l’eco monotona di una quéstua cantilenante ripetuta chissà quante volte. Non ho spiccioli in tasca e vado oltre senza lasciarle nulla. Ma l’incontro con la zingara dirotta la marcia ordinata dei miei pensieri e insinua per un attimo un dubbio: posso dire che la mia vita, con pasti a orari regolari, lacci, laccioli, cartellini da timbrare, certificati medici da presentare, abbia davvero più senso della sua?
                                                                            Maria D’Asaro:Centonove” n. 17 del 30.4.2015

venerdì 1 maggio 2015

Oro vale lavoro

Penso a Gaetano, trent’anni: sa fare l’imbianchino, l’elettricista e l’idraulico e tante altre cose ancora. E’ costretto a guardare il soffitto della sua stanza perché nessuno gli offre un lavoro. Conosco centinaia di persone che farebbero di tutto per lavorare. Perché il lavoro dà sostentamento, ruolo sociale, ritmo e senso alle giornate. E allora sono infuriata con la politica e il pensiero dominante di questa società che tollera la disperazione di milioni di uomini e donne. Uno stato dovrebbe essere come una famiglia: tutti mangiano, tutti danno il proprio contributo, si divide quello che c’è. 
Per favore non ditemi che sono utopista e sognatrice: è l’attuale organizzazione sociale a essere crudele e inumana. La globalizzazione mondiale sotto l’egida del capitalismo e del profitto a tutti i costi, che coniuga spesso lavoro e sfruttamento selvaggio, ha ucciso i diritti essenziali delle persone. Se le ideologie, le filosofie e le religioni avessero un senso, il diritto al lavoro e alla dignità di ogni essere umano dovrebbero gridarlo dai tetti.