mercoledì 8 aprile 2015

Stranieri ... ma non troppo

A cosa può servire nel mondo attuale un’indagine sul problema dello straniero nella Grecia antica?” Non c’è il rischio di “fare storia fine a se stessa o informazione erudita, evasione?” Nell’introduzione a Stranieri, Figure dell’Altro nella Grecia antica (Di Girolamo editore, Trapani, 2014, € 12), è l’autore stesso, Andrea Cozzo, a interrogarsi sui possibili rischi che una ricerca specialistica su tali argomenti può comportare. Cozzo supera brillantemente la prova e ci offre un saggio serio e rigoroso, sostanziato da una straordinaria ricchezza quanti-qualitativa di fonti storiche; saggio che ci permette di comprendere come i problemi che agitano oggi la contemporaneità – l’immigrazione crescente, l’atteggiamento verso gli stranieri, le cause che ‘producono’ profughi, il rapporto tra cittadinanza e jus sanguinis - siano stati vissuti e ‘agiti’ con altrettanto pathos e con la stessa intensità nel mondo greco antico. Tale retrospettiva storica ci consente uno sguardo più lucido e acuto verso gli stranieri di oggi e ci suggerisce un approccio razionale ai problemi, invitandoci a superare pulsioni emotive ed errori grossolani, come quelli di credere che il problema dell’immigrazione si possa risolvere erigendo fragili e inutili barriere.
Leggendo il saggio, che si gusta volentieri anche grazie anche a uno stile espressivo chiaro e scorrevole,  scopriamo intanto che nel mondo omerico gli stranieri erano ospitati e accolti perché vi era la consapevolezza che si poteva essere Altri, stranieri, in alcuni momenti dell’esistenza; scopriamo poi che il razzismo antico non aveva mai a che fare col colore della pelle e che il pre-giudizio verso gli stranieri era connesso a precise condizioni storiche: infatti “il giudizio negativo verso coloro che parlano una lingua diversa da quella greca … si sviluppa dalle guerre persiane in poi, cioè da quando i Greci inventano (…) la loro autocoscienza”.  Prendiamo atto poi di un errore di prospettiva comune tra noi e gli Ateniesi, presso i quali “l’accoglienza dello straniero convive con la rivendicazione di non essere mai stati, loro, stranieri da nessuna parte” per cui  “l’autoctonia e/o l’antichità sono garanti della ‘stessità’ nel tempo e nello spazio e, con essa, dello jus sanguinis”. Leggiamo più avanti però che “Atene rinunciava al mito dell’autoctonia ogni volta che la concessione della cittadinanza le faceva comodo: (…) per rimediare alla penuria di uomini dopo una guerra … per far fronte a un nemico esterno o per rilanciare l’economia della città”. Niente di nuovo sotto il sole, quindi: l’ideologia della purezza autoctona, allora come ora, era solo la sovrastruttura di un bisogno sociale: “Il rifiuto della cittadinanza agli stranieri non dipendeva dalle intrinseche differenze naturali attribuite loro: (…) il rifiuto aveva a che fare con la scelta di una difesa dei privilegi dei cittadini e la concessione con il tornaconto”.
Che all’origine della cittadinanza non ci fosse una condizione naturale, ma una scelta, lo avevano chiaro nel passato personalità del calibro di Luciano e Aristotele: quest’ultimo “mostra l’insensatezza di una giustificazione del diritto di cittadinanza attraverso il passato, e colloca la pretesa dello jus sanguinis sul piano … della decisione politica”. Scopriamo infatti che ad Atene, tra il V e il II secolo, la concessione della cittadinanza a stranieri veniva concessa come ricompensa per benefici ricevuti dalla città.  Pericle stesso, che in origine aveva ristretto il diritto di cittadinanza solo a coloro che avevano entrambi i genitori cittadini, chiese poi che la legge fosse abrogata per far registrare come cittadino ateniese un suo figlio illegittimo e consentì che, a seguito dell’elevato numero di morti per la peste, la legge venisse sospesa o almeno applicata in modo meno rigoroso. A questo proposito, Andrea Cozzo ribadisce che gli imbrogli per la cittadinanza erano ad Atene un fenomeno diffuso: nel 445 a.C, in occasione di una distribuzione gratuita di grano, quasi cinquemila individui si erano spacciati per cittadini ateniesi!
Nell’ultimo capitolo, Gli altri e Noi, l’autore ci ricorda una verità semplice, ma a volte dimenticata: “Gli Altri hanno un loro vissuto emotivo che Noi possiamo conoscere meglio quando … diventiamo Altri a nostra volta”; e ci offre infine una retrospettiva pregna di squarci di speranza: cita Isocrate e Demostene che, nel IV secolo a.C., avevano già chiaro il nesso tra povertà, guerre e profughi; e documenta come, nel IV secolo d.C., molti cristiani - Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea (che creò un vero e proprio centro di accoglienza) Gregorio di Nazianzio -  si prodigassero ormai in modo convinto e ‘strutturale’ a favore di stranieri e bisognosi.


Maria D’Asaro (“Centonove”, n.13 del 2.4.2015) 

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