giovedì 31 luglio 2014

Siamo noi il corpo di Dio


"C’è quest’ossimoro Corpus domini-corpo del Signore: Dio non ha un corpo, e un corpo non può appartenere a Dio. E invece proprio l’esperienza di Gesù ci apre a questa risoluzione che è inedita nell’esperienza e nella riflessione umana: quando l’uomo ha pensato Dio, ha creduto utile allontanarsi dalla realtà visibile e tangibile che è esposta alla caducità per elevarsi all’immensità di Dio. Quando l’uomo si è dedicato al corpo, ha ritenuto opportuno mettere da parte Dio perché Dio non c’entrerebbe: il corpo ha le sue esigenze, i suoi bisogni, ma non possiamo aspettarci chissà che cosa dalla nostra corporeità. 
Invece con la sensibilità contemporanea, soprattutto con alcuni filoni del pensiero a noi più vicino – penso alla fenomenologia, ma anche ad altri percorsi di psicologia e ad altre scienze come le neuroscienze – ci stanno rendendo quasi obbligata invece questa strada che ci vuole fare scoprire la verità che dovrebbe starci a cuore, direi più di ogni altra: che il mondo esiste perché il mondo è la visibilità di Dio. E siccome la parte più alta del mondo è la nostra corporeità, e tutto quello che noi riusciamo ad esprimere attraverso di essa, ecco, il mondo e la nostra corporeità esistono perché in qualche modo ci rende visibile, tangibile, respirabile, gustabile, odorabile, commestibile Dio!
Quindi il mondo esiste perché possiamo sperimentare, con tutti i nostri sensi, con tutte le nostre capacità, questa immensità del dono che Dio vuol essere per noi. E questo vale anche viceversa: il modo migliore per attingere alla realtà, quella che viviamo ogni giorno – bere, mangiare, incontrare, abbracciare, volersi bene, costruire, cercare di cambiare e rendere sempre più belle le cose – tutto questo che possiamo ricapitolare nell’incontro tra due corpi che, in qualche modo, sintetizzano in maniera più impegnativa questa relazione con la realtà (niente è così impegnativo come quando due persone si incontrano …), è come se fossimo invitati a dire: non prendere mai sottogamba quest’incontro perché qui ne va di Dio stesso: (…) in quest’incontro, in questa persona, in questo momento Dio mi viene incontro, mi sta interpellando: perché io mi prenda cura di questa persona, di questo corpo, di questa mia sorella, di questo mio fratello, di questa realtà di cui faccio parte, di questa creazione che mi è qui donata – e io faccio parte di essa – perché mi vuole portare a un’esperienza sempre più bella, sempre più grande della realtà di Dio che sa contenere tutto, ma sa anche aprirci orizzonti sempre più belli.
Come diceva un autore, Dio è colui del quale non possiamo pensarne uno più grande, più bello, più giusto, più interessante, più attraente -  ho aggiunto io questi altri termini – e per pensare questo abbiamo bisogno di tutto il mondo, di tutta la realtà, di tutte le persone, di tutti gli incontri, di tutti i corpi che incontriamo … Se vogliamo pensare Dio alla grande, ogni incontro, dal filo d’erba, alla persona, agli animali, alla creazione tutta, ci fa pensare grandemente il Signore.
Ecco perché celebriamo il Corpus Domini, ecco perchè si incontrano queste due realtà in maniera inscindibile: non un Dio senza il corpo della nostra creazione, del mondo; né un mondo, quello nostro, quello delle creature, senza quest’orizzonte di immensità che abbraccia tutto e che ci vuole spingere a pensare, a sperimentare e a realizzare, in maniera sempre più grande, più bella, più attraente, più gioiosa.
C’è pure l’esperienza di cose negative, quelle che possiamo esprimere col termine caos, quando per caos intendiamo le cose incontrollabili, su queste cerchiamo di intervenire per controllarle; ma quando vogliamo liberare la realtà alla sua piena realizzazione pensiamola come il corpo di Dio. E per realtà intendo tutto; ma in modo particolare le persone che abbiamo accanto, nelle quali inciampiamo perché Dio vuole essere incontrato lì: si è fatto carne, si è fatto uomo perché non possiamo voltare pagina sulla nostra umanità e pretendere di incontrare Dio senza la nostra umanità.
 Vi ricordate, abbiamo dibattuto proprio qui in chiesa, a proposito di un caso palermitano, di preti che avevano portato l’Eucarestia a qualche mafioso latitante; ormai sappiamo che sono tutti scomunicati i mafiosi, quindi non gli si può portare la comunione, ora c’è anche quest’intervento ufficiale. Ma noi abbiamo discusso di che cosa? Di questa pretesa di potere incontrare Dio senza rendere conto alle persone a cui abbiamo fatto male; come se potessimo saltare sull’umanità e dire: tanto io ho un rapporto diretto con Dio, poi dell’umanità, degli uomini, delle donne che io ho ammazzato, a cui ho fatto danno, pazienza, chiudiamo un occhio. No, no: non possiamo incontrare Dio che non vediamo se non nei fratelli che vediamo. 
E quindi la visibilità di Dio siamo tutti noi. E questo ci dà un bel compito: tentare di far trasparire questa presenza non è facile, perché non sempre le cose vanno come vorremmo, non sempre ci riusciamo. E, cosa ancora più difficile, è incontrare Dio negli altri. Questo è ancora più complicato, ma dobbiamo provarci. (…)

(omelia del 22.6.2014, chiesa di san Francesco Saverio, Palermo. Il testo non è stato rivisto dall'autore, don Cosimo Scordato: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)

martedì 29 luglio 2014

Non gridate più


Marc Chagall: La guerra


Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.



Giuseppe Ungaretti (da Il dolore, in Vita di un uomo)



(Dedicata alle vittime della guerra tra Israele e i Palestinesi)

domenica 27 luglio 2014

PIF intervistato solo d'estate ...

Ecco il video dell'intervista a PIF, in occasione dell'uscita a Londra dell'ottimo: "La mafia uccide solo d'estate". L'intervista è stata realizzata da mio nipote Alessandro.

venerdì 25 luglio 2014

Straniera a casa mia

Nel panificio del quartiere, ragazzi di pelle scura e signore di pelle chiara lavorano in nero mentre, di solito, i clienti non ricevono lo scontrino fiscale; al banco della vicina salumeria, c’è un signore che, mentre affetta il salame, pontifica su Dio che salva noi poveri peccatori, solo se crediamo in Cristo Gesù e, soprattutto,  se andiamo alle adunanze previste dai capi religiosi, almeno una volta a settimana; il parrucchiere zonale è un fan sfegatato di Forza Italia e continua a osannare il suo leader, oggi tutor forzato di vecchietti; il fruttivendolo sotto casa non sa neppure cosa sia uno scontrino fiscale e si vanta di non essere andato a votare perché “tanto sono tutti uguali”; il tabaccaio, a due isolati di distanza, mi ha tolto da tempo il saluto perché, anni fa,  ho ripulito delle fioriere vicine al suo negozio. Che triste sentirsi  così estranea a casa propria …
                                                    Maria D’Asaro (“Centonove” n. 29 del 25.7.2014)

mercoledì 23 luglio 2014

Vamos a la playa

Un’estate al mare, voglia di remare ... Venga, signora, c’è il risveglio muscolare, è una ginnastica dolce. Quest’estate voglio divertirmi per le vacanze, un’estate al mare stile balneare con il salvagente per paura di affogare … 
Lei è un donnone robusto, due ombrelloni lontana. Il pretesto per attaccare bottone è il nipotino di nostra Signora, mascotte della spiaggia. Poi la donna robusta dice che lei a mare proprio non ci voleva andare Fare il bagno al largo per vedere gli ombrelloni oni oni, dieci ragazze per me posson bastare; dieci ragazze per me voglio dimenticare  Sono state le sue figlie a costringerla Vamos a la playa oh oh oh.  I ragazzi dell’animazione alzano il volume, nostra Signora sente solo parole spezzate: - Mio marito  ... cinquant’anni di matrimonio ... abbiamo lavorato sodo in Germania  ...   un infarto,  a marzo un anno e quattro mesi fa vamos a la playa oh oh oh, vamos a la playa oh oh oh La signora adesso sta piangendo: - Sembrava che lo superasse ... è bella la nipotina ... mio figlio, con sua moglie ... mi ha fatto una sorpresa ... ho 74 anni. - Ma no, ne mostra dieci di meno - Abbozza un lieve sorriso. - Arrivederci: do una mano a mia figlia. -
Ma io vivo solo per te, io vivo solo per te. Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente. 
Poi un capannello: - Vicino Palermo hanno chiuso l’autostrada perché c’è stato un morto chissà se più tardi la aprono ... - Ma i morti di Gaza qui non arrivano e neppure gli annegati delle carrette del mare. 
Ecco, è il Paradiso. Ma quello dei Coldplay.

lunedì 21 luglio 2014

La mafia raccontata a mia figlia

Manfredi Borsellino
Cara Merope,
oltre venti anni fa accadeva qui a Palermo, a poche centinaia di metri dal quartiere dove noi abitiamo e che abitualmente frequentiamo, qualcosa che avrebbe cambiato radicalmente la nostra società, avrebbe scosso tante coscienze e probabilmente segnato un punto di non ritorno; niente (o quasi) dopo quegli eventi sarebbe stato come prima. Due palermitani come noi, due uomini onesti e leali, uno dei quali tu hai iniziato a conoscere un po’ meglio perché si tratta di tuo nonno, dopo avere combattuto una lotta intensa e ininterrotta contro un male feroce chiamato mafia o Cosa nostra, si sono sacrificati. Il loro sacrificio è consistito nell’immolarsi affinché i più giovani, ma anche voi che ancora non eravate nati, acquisissero la consapevolezza di quanto terribilmente serio fosse quel male cui ti ho accennato prima, per troppo tempo sottovalutato, ignorato e purtroppo non combattuto da tutti coloro che avrebbero dovuto contrastarlo.
E così quel male nel tempo è diventato sempre più potente, i suoi tentacoli si erano intrufolati tra le stesse istituzioni che governavano il nostro paese, tra le forze di polizia e in quella stessa magistratura di cui questi due grandi cittadini palermitani facevano parte.
Soli, senza lo Stato che avrebbe dovuto proteggerli come i suoi figli migliori, hanno con consapevolezza affrontato il martirio, altrettanto consapevoli però che la loro morte (apparente) non sarebbe stata vana.
Già dopo l’attentato in cui perse la vita Giovanni Falcone, il più grande amico e collega di tuo nonno Paolo, Palermo si svegliò, tanti giovani e bambini della tua età si riversarono sulle strade mentre dai balconi sventolavano grandi lenzuoli bianchi, segno di purezza e di pace.Quando purtroppo venne il momento del tuo caro nonno Paolo, non solo Palermo ma tutta l’Italia si è (ri) svegliata gridando il suo sdegno.
Di mafia, ma anche del tuo nonno Paolo e del suo amico Giovanni, del loro sacrificio/martirio, di legalità, dell’importanza delle regole e del rispetto delle leggi, dell’omertà mafiosa, di pizzo ed estorsioni, di istituzioni, o meglio ancora di uomini delle istituzioni collusi o contigui con la criminalità organizzata, di complicità di pezzi dello Stato nell’ideazione e (forse) realizzazione di quelle stragi avvenute quando tu non eri ancora nata, si è finalmente iniziato a parlare nelle famiglie, a scuola e negli stessi luoghi di ritrovo di tanti tuoi coetanei, formando delle coscienze nuove.
Oggi, cara Merope, voi bambini siete “allenati” a combattere quel male subdolo, la mafia, che ti ha tolto il tuo caro nonno prima che venissi alla luce, siete allenati da papà e mamma che soddisfano per quanto loro possibile la vostra sete di verità e giustizia, ma siete allenati anche dalle vostre maestre, grazie alle quali la vostra attenzione su ciò che è accaduto tanti anni fa non si attenua mai.Del tuo caro e grande nonno Paolo avrei tante cose da dirti e raccontarti ma con calma e senza fretta le conoscerai strada facendo.
E’ in questo momento sufficiente che tu sappia che egli ha “consapevolmente” sacrificato la sua vita privandosi di una delle cose che desiderava di più al mondo, ovverosia veder nascere e crescere i suoi nipotini come te, per farvi vivere in un mondo migliore dove chi svolge (e bene) il proprio dovere, sia esso di magistrato, poliziotto, maestro o sacerdote, non debba mai più temere per la sua vita e quella dei suoi familiari.
                          Manfredi Borsellino

venerdì 18 luglio 2014

Scambi culturali PA-GR …

Grosseto - Chiesa del Sacro Cuore
La notizia è apparsa sul quotidiano “Il Tirreno” il 24 maggio scorso: i vigili urbani di Grosseto hanno multato i titolari di un bar perché, con due casse esterne, animavano con musica una cena/aperitivo, ideata per raccogliere fondi per Guglielmo, un bambino di 4 anni affetto da una rara forma di tumore, che subirà una costosa operazione. Peraltro erano appena le 20.30 di sera e la musica, per la quale sono stati  pagati i diritti SIAE, non era ad alto volume. Ce ne fossero vigili così solerti a Palermo, subito pronti ad accorrere alle chiamate dei cittadini! Forse Grosseto e Palermo avrebbero bisogno con urgenza di una sorta di gemellaggio o “scambio culturale”, simili a quelli operati nelle scuole: molti palermitani dovrebbero soggiornare a Grosseto per imparare il rispetto delle regole; ad alcuni grossetani farebbe bene vivere qualche settimana a Palermo per imparare, a loro spese, a essere più tolleranti.
Maria D’Asaro   (“Centonove” n. 28 del 18.7.2014)

lunedì 14 luglio 2014

Intervista a Pino Manzella

(Ecco la mia intervista al pittore Pino Manzella, pubblicata su "Centonove" dell'11.7.2014 pagg.30,31)

Pino Manzella 
Pino Manzella: siciliano di Cinisi, professore di Lingua Francese, viaggiatore per passione: a 16 anni va a Parigi, poi a Vienna, Praga, Berlino, Atene, Istanbul, New York, Philadelphia, Washington. Scrittore mancato (a uno zio che a 5 anni gli chiedeva cosa volesse fare da grande, rispose senza esitare: voglio scrivere), ma con un talento speciale per la pittura: sue “personali” si sono tenute anche a Bari, Venezia, Bad Bevensen, Hannover, Lehrte, List, Giessen. A vent’anni – sono parole sue -  “facevo parte di quel gruppetto di marziani riunito attorno a Peppino Impastato, e disegnavo manifesti, vignette, copertine per giornaletti ciclostilati, le pareti del Circolo Musica e Cultura e i manifesti dei film che davamo al Circolo”.
Tu e Peppino: nel 1978, quando fu ammazzato, Peppino aveva 30 anni e tu 27. C’è qualcosa della tua amicizia con Peppino che va ancora raccontato?
Premetto che quando mi “chiamano” come amico di Peppino provo una sorta di disagio, quasi volessi appropriarmi di uno “status”: credo infatti che, negli ultimi anni, Peppino sia diventato il faro da cui troppa gente si vuole fare illuminare … Ho conosciuto Peppino intorno al ’68, quando la rivolta si respirava nell’aria. E’ difficile raccontare un’amicizia tra militanti impegnati insieme ogni giorno per tanti anni. Peppino nel ’68 aveva vent’anni, io diciassette. Era già impegnato in politica, nell’area dell’allora PSIUP (Partito socialista di Unità Proletaria). Lui era bravo con le parole, faceva comizi, scriveva poesie (ma questo lo scoprirò anni dopo), però non sapeva disegnare. Così quando c’era qualcosa da illustrare, ci pensavo io: vignette che facevano incazzare i fascisti, manifesti che talvolta ci portavano davanti ad un magistrato, una ventina di manifesti disegnati a mano, una mostra dei PID (“Proletari in divisa”), che fece il girò di mezza Sicilia. E poi c’era la vita quotidiana: le discussioni politiche interminabili, le giornate al mare, i libri che ci scambiavamo; Peppino amava i saggi di politica e società, io preferivo romanzi e poesia. Con Peppino, andai a Roma per una manifestazione; andammo insieme a Marsala, per il primo concerto di Fabrizio De André in Sicilia. Allora non c’era ancora l’autostrada e al ritorno sbagliammo un incrocio: arrivammo a casa l’indomani mattina! Ma erano sempre attività di gruppo, non c’erano né amici più cari né bracci destri particolari: tutto si faceva insieme. Peppino aveva un giro di compagni e amici che cambiava nelle varie fasi della sua vita.

Di Peppino sappiamo del rapporto speciale con sua madre, Felicia Bartolotta Impastato. Ma  poco o niente della sua vita sentimentale: Peppino è mai stato innamorato? Che posto avevano i sentimenti nella sua vita così piena di impegno civile?

Dici bene: la vita di Peppino era fatta soprattutto di impegno civile e politica. La sua vita sentimentale è stata sempre un mistero anche per noi suoi amici. Dai suoi pochi appunti autobiografici e dalle poesie abbiamo saputo di qualche suo innamoramento, ma era come se relegasse l’aspetto affettivo della sua vita in una zona inaccessibile e apparentemente ininfluente. Come d’altronde aveva fatto per le lacerazioni degli affetti familiari, che all’apparenza poco influenzavano il suo impegno politico. Oggi sappiamo che non era così.

Fa impressione vedere nel video della canzone “I Cento passi” dei Modena City Ramblers il funerale “cinematografico” di Peppino: tu sei in prima fila, con il pugno alzato. La domanda è forse banale: cosa si prova quando uno dei tuoi più cari amici viene ammazzato dalla mafia?

Si prova rabbia, una rabbia immensa e impotente. Una rabbia che ti porti dentro e ti avvelena il sangue perché con gli anni diventa astio verso quella parte dei tuoi compaesani che allora, per quieto vivere e per viltà, fecero finta di credere ai carabinieri ed ai mafiosi. E che anche oggi, come alibi a quella viltà, continuano a trasmettere ai loro figli la memoria falsa di un Peppino pazzoide e poco di buono che “se l’era cercata”. Come se fosse normale accettare tutte le illegalità e le schifezze che imponevano i mafiosi e l’anomalia fosse Peppino che le denunciava. E poi c’è la rabbia verso quegli uomini delle istituzioni preposte alle indagini che invece depistano e fanno carriera. Ma, lo diceva Sciascia, lo Stato non può processare sé stesso.

A interpretare Peppino, nel film “I Cento passi”, il regista Andrea Giordana ha voluto il palermitano Luigi Lo Cascio. E’stata una scelta azzeccata? In generale, come giudichi “I Cento passi”? In che rapporto sono stati, dentro di te, il  vero Peppino e quello del film?

Luigi Lo Cascio nella parte di Peppino è stata un’ottima scelta perché Luigi è un attore bravissimo, si è calato nel personaggio in modo totale, anima e corpo. Curava anche i minimi dettagli: una sera, durante le riprese del film, mi telefonò per chiedermi del modo di camminare di Peppino. Gli dissi che, quando saliva per il corso principale di Cinisi, camminava radente al muro, guardando per terra. E quando gli raccontai di quella volta che aveva sbattuto la testa su una persiana aperta, scoppiammo a ridere. Sono certo che aver impersonato Peppino abbia influenzato, in qualche modo, la sua vita privata: e non parlo del successo e di quelle cose lì, credo che Luigi abbia anche interiorizzato la carica umana e l’impegno civile e politico di Peppino.

“I cento passi” ha certamente avuto il merito di far conoscere la storia di Peppino a livello nazionale e forse anche internazionale. Ma nel film si racconta un dramma familiare con parecchie invenzioni e con alcune deformazioni. Nell’estate del ’99, prima che iniziassero le riprese, ci avevano detto che volevano sentire le testimonianze degli amici, ma non se ne fece niente: solo Giovanni, il fratello di Peppino, e un amico, Salvo Vitale, lessero la sceneggiatura. Così un’esperienza unica e intensa come quella del Circolo Musica e Cultura viene liquidata con una scenetta dove il Circolo diventa un posto dove si vede qualche film e dove si balla. In realtà vi si ballò una sola volta, nel carnevale del 1977. Il Circolo invece svolse un’intensa attività culturale, quasi giornaliera, fatta di cinema, dibattiti, spettacoli teatrali e musicali, mostre fotografiche e di pittura. Si riuscì persino a organizzare un festival alla spiaggia Magaggiari, il raduno “Nuove Tendenze”. Salvo Vitale, che fu vicino a Peppino solo nella fase finale, ai tempi di Radio Aut (prima insegnava in Sardegna), viene presentato quasi come “braccio destro” di Peppino. Invece, non c’era nessun braccio destro, ma c’erano tanti amici e compagni: Agostino Vitale, che collaborò  con Peppino ai tempi del giornale “L’idea socialista”, Vito La Duca, Guido Orlando …  Era nella logica degli anni ’70 fare le cose insieme, allora non c’erano personalismi, c’era la logica del collettivo. Un’altra inesattezza del film è l’enfatizzazione del rapporto col pittore Stefano Venuti e col Partito comunista: in realtà Peppino e tutti noi eravamo “movimentisti”, più libertari, non “ingabbiati” nel PCI ma più vicini a gruppi come Lotta Continua prima e Democrazia Proletaria dopo.

Dopo tutti quegli anni di isolamento (alle commemorazioni, il 9 maggio, eravamo 20, 30 persone al  massimo, senza nessun rappresentante delle Istituzioni), quando uscì il film, nel 2000, fummo contenti che la figura di Peppino venisse riconosciuta a livello nazionale e soprassedemmo su invenzioni e deformazioni. Per molti ormai Peppino è quello del film: magari diventa, di volta in volta, “giullare dell’antimafia”, “giornalista”, “poeta”, e ci si dimentica che era un militante politico rivoluzionario, come si diceva allora. E poi si utilizzano frasi del film come se le avesse dette veramente lui. Una precisazione, forse banale: se non ricordo male in quel famoso articolo la mafia per Peppino non era una montagna, ma una valanga di merda … Definizione forse più incisiva e travolgente. Dentro di me, per un po’, il Peppino cinematografico e quello vero hanno fatto a pugni. Ora riescono a convivere, ma io so chi è il vero Peppino.

La mafia e il controllo del territorio: cosa è cambiato, a tuo avviso, a Cinisi dalla fine degli anni ’70 ad oggi? Quali battaglie farebbe oggi Peppino in Sicilia e in Italia?

Negli anni ’70 si sapeva chi era il capomafia, chi gli girava attorno. La mafia oggi si mimetizza, non la vedi più come allora, ora è tutta economia. Ma di questo ormai so quello che leggo sui giornali. Certo in un piccolo centro è più facile vedere certe cose, ma puoi solo sospettare … E chi può dire come sarebbe evoluto il suo modo di guardare alla realtà siciliana? Certo, se penso ad una sua coerenza con quello che pensava allora, oggi lo vedrei a suo agio con i NO MUOS, con i NO TAV e in tutte le lotte in difesa dell’ambiente, a fianco dei precari, dalla parte dei più deboli. Sempre in prima fila contro arroganza e prepotenza.

Conosci bene i ragazzi perché hai insegnato Lingua Francese a Cinisi nella scuola media per tanti anni. Quale è, secondo te, la migliore didattica antimafia?

Bufalino diceva che contro la mafia bisogna schierare un esercito di maestri. Aveva ragione: soprattutto maestri, prima che professori. Quei cinque anni di Scuola Elementare sono fondamentali. E’ lì che bisogna lavorare, alla Scuola Media potrebbe essere già tardi. La nostra scuola ha in sé la capacità di formare degli ottimi cittadini, ma spesso abdica al suo ruolo, tralasciando certi argomenti come la mafia e affidandosi alla buona volontà di qualche insegnante, senza una coerente e globale didattica antimafia. Se insegni in un paese come Cinisi, hai un punto di osservazione privilegiato. Cinisi ha ancora solidissime radici mafiose e sicuramente la scuola che ho conosciuto io non faceva abbastanza. Ti racconto solo due particolari: nel 1995 abbiamo chiesto di intitolare a Peppino l’aula magna della scuola media: ci sono voluti più di dieci anni perché la richiesta fosse accettata. E poi a scuola, quando parlavo di antimafia poteva capitare qualcuno a ricordarmi, magari con il sorriso in bocca, che la mia materia era il Francese

Quando hai iniziato a dipingere? Quanto l’assassinio di Peppino ha influenzato la tua opera di pittore?

Mi pare di aver sempre dipinto, ma sicuramente con più continuità dall’adolescenza. L’assassinio di Peppino si inserisce in un contesto schiacciato tra chiesa, mafia e clientelismo democristiano. Mafiosi e amministratori corrotti con la benedizione della chiesa. Non è un caso che Leonardo Pandolfo e Gaetano Badalamenti facessero parte del Comitato per i festeggiamenti di Santa Fara … Per cui vedevo questa comunità immersa nell’egoismo e nell’ipocrisia. Tutto questo ha influenzato la mia vita e quindi anche il mio modo di guardare alla pittura. All’inizio il disegno non era solo disegno, ma il tentativo di raccontare un luogo dal mio punto di vista, il mio modo di interpretare e di capire la realtà in cui vivevo. Voleva essere uno sguardo critico, una denuncia della realtà così com’era, quasi una spinta a cambiarla. Perché quasi subito ho scoperto che c’erano troppe cose che non mi piacevano e cercare di cambiarle disegnando era la cosa più bella che mi potesse capitare.

La tua è una tecnica particolare: spesso disegni con china acquerellata su vecchi fogli di archivi destinati al macero. Un critico d’arte, Claudio Alessandri, scriveva che “Gli antichi documenti vergati con calligrafia minuta ed ordinata richiamano dalle ombre un passato nebuloso, ma abbastanza visibile per accostarlo alla storia recente. Un unico filo collega due mondi temporalmente lontani, ma emotivamente attuali. Manzella scrive con le sue opere la storia recente lasciando agli antichi documenti, supporto delle sue opere, il compito di far rivivere il passato.”: ti riconosci in questa definizione?

Si, abbastanza: il mio amico Claudio Alessandri, purtroppo scomparso qualche anno fa, conosceva bene il mio percorso artistico, per cui quello che scriveva sulla mia pittura era sempre molto pertinente.

Sul tuo percorso artistico, scrive anche il presidente del Centro di documentazione Peppino Impastato, Umberto Santino, che ha fatto tanto perché fosse riconosciuta la verità storico-giudiziaria su Peppino. Umberto scrive Tu, come un antico miniaturista, animi di colori vecchi manoscritti finiti al mercato delle pulci, atti notarili che registrano nozze e compravendite su svolazzi d’inchiostro ancora leggibili …

Nei miei disegni cerco di rappresentare la Storia e la società, specie quella siciliana. Alcuni miei dipinti vogliono essere un omaggio alla letteratura. Ad esempio, i ritratti di Consolo, Sciascia, Bufalino, Borges sono concepiti dopo una full-immersion nelle loro opere. Dipingere è per me riflettere graficamente sulle tensioni, sui drammi, sugli eroi e sulle vittime della nostra isola. Senza dimenticare la luce abbagliante della nostra isola.

Cosa conterrà e dove sarà la tua prossima mostra?

Con il murale “Il filo rosso della memoria” fatto all’interno della Casa Museo “Felicia e Peppino Impastato” ho iniziato un nuovo ciclo in cui la Memoria diventa l’elemento da salvaguardare, in quest’epoca smemorata dove si vive solo al presente e non c’è né il passato né il futuro. Questo ciclo è diventato mostra itinerante all’interno di varie scuole e Comuni non solo siciliani (ultimamente Salerno, Roma e Macomer nell’ambito del Festival della Legalità “Conta e cammina”). Nel futuro prossimo, c’è la mia partecipazione, con due opere de “Il filo rosso della memoria”, a una “collettiva” a Berlino, organizzata da RicercArte di Naire Feo e Bartolo Conciauro. Mentre in Sicilia, ad Alcamo, in questi giorni c’è stata un’altra collettiva dal titolo “Aspetti architettonici e paesaggistici siciliani”, organizzata dalla Galleria d’Arte Studio 71 di Francesco Scorsone e da EMIRO ARTE di Sebastiano Caracozzo, mostra che poi andrà in giro in diverse città siciliane e dal 19 luglio sarà al Museo degli Angeli di Sant’Angelo di Brolo, in provincia di Messina.

Ancora Santino, in una recensione delle tue opere, scrive: “Il tema è ancora la Sicilia, o meglio le Sicilie, con tutte le sue contraddizioni, con i suoi miti e i suoi stereotipi, ma pure con le sue semplici, quotidiane, umili e preziose, speranze-certezze.” Quali sono i tuoi progetti artistici futuri? Cosa vuoi dipingere ancora?

Senza trascurare i paesaggi naturali e notturni, altra cifra espressiva a cui sono legato, continuerò a dipingere opere legate alla nostra Storia, privilegiando il filo rosso della memoria e del ricordo. Continuerò a mettere assieme letteratura, impegno e pittura, perché sono dimensioni inscindibili dentro di me. Affiancherò ai ritratti di scrittori famosi anche quelli di gente comune e sconosciuta, perché ognuno di noi ha la dignità di soggetto storico.

Maria D’Asaro (“Centonove” n. 27 dell’11.7.2014, pagg. 30,31)

  

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venerdì 11 luglio 2014

Palermo secondo Cavadi

    Se volete la spiegazione metafisica della dolcezza estrema della cassata e il perché dell’abbondanza dei panini con le panelle per le strade di Palermo; se volete essere edotti sui malesseri provocati dallo scirocco che soffia talvolta impietoso sulla città; se volete “avere un’idea adeguata della contraddizione che è una delle chiavi interpretative migliori per capire Palermo”, leggete il libro pocket di Augusto CavadiPalermo” (Di Girolamo, Trapani, 2014, € 9,90), che, come recita il sottotitolo è davvero una “guida insolita alla scoperta di una città indecifrabile”
    Nelle 150 pagine della guida, attingendo anche alle parole acute  e sagaci di intellettuali che hanno visitato Palermo e ne hanno colto scenari e atmosfere intriganti, Cavadi ci fa davvero entrare in contatto con l’anima della città. Della quale, magari in un rapporto di attrazione e repulsione, il turista o il residente non possono fare a meno di innamorarsi. Almeno una volta nella vita.
                Maria D’Asaro (“Centonove” n. 27 dell’11.7.2014)

mercoledì 9 luglio 2014

Io-tu-noi:comunione di amore


Oggi è la festa della SS.Trinità: noi riconosciamo che Dio è uno nella sostanza e trino nelle persone. La stessa sostanza di Dio, la vita divina, ce l’hanno pienamente il Padre, in quanto è il principio di questa vita, il Figlio, in quanto l’accoglie dal Padre, e lo Spirito Santo in quanto sigilla questo dono e quest’accoglienza nel “noi” della comunione di amore.
Questo per esprimerci con i termini della tradizione teologica, (...) E ciò nonostante, ogni volta che ci imbattiamo nel mistero di Dio, sentiamo che il modo più bello di pensarlo è, appunto, come mistero. Però per mistero, care sorelle e fratelli, non dobbiamo intendere ciò che non capiamo e rispetto a cui siamo anche rinunziatari: non c’è niente da capire, meno ne parliamo, meglio è … Per mistero dobbiamo intendere ciò che non finiamo mai di comprendere, ciò che è più grande di ogni nostra formulazione e di ogni nostra esperienza. Proprio la formula Dio uno e trino, con la sua apparente tensione (non dico contraddizione), sta lì quasi a dirci: mettiti il cuore in pace, non c’è una riflessione, una formulazione, un’esperienza con la quale tu potrai pretendere di avere capito la realtà nella usa profondità più colma …
E quindi il modo migliore di proporci dinanzi al mistero, è quello di utilizzare tutte le esperienze umane - le più belle, le più grandi, le più esaltanti - per cercare di evocarlo, questo mistero grande. E quindi il mistero è ciò che non finiremo mai di capire abbastanza: ci vuole tutto il pensiero umano, di tutti gli uomini, di tutte le donne, tutte le esperienze umane, soprattutto tutte le esperienze di comunione per evocare qualcosa di questa vita immensa dentro cui noi navighiamo, viviamo, a cui noi attingiamo … E che ci dà la voglia di andare avanti, di essere portatori di questa esperienza di comunione. Che non è mai esauribile da nessuno, per quanto intensa e bella possa essere: dalla vita di coppia, alla vita dell’amicizia, alla vita della famiglia, alla vita delle comunità, anche quelle più forti, di grande intesa … 
Non c’è nessuna esperienza che è capace di esaurire la bellezza della comunione, da cui tutti noi siamo generati, dentro cui tutti noi ci muoviamo. E ci muoviamo proprio in quella duplice forma che il mistero della Trinità vuole salvaguardare in ciascuno di noi: l’essere per davvero una persona, singolare, unica, irripetibile, con i propri carismi e scoprire che il nostro essere personale è sempre in relazione con gli altri e col resto del mondo. Queste due cose non sono in conflitto. Come non sono in conflitto in Dio: Dio è tutto Dio come Padre, ma Padre in riferimento al Figlio e allo Spirito. Noi siamo tutto noi stessi nella nostra persona, ma mai siamo tanto persona come quanto ci sappiamo relazionare con gli altri, in relazioni vivificanti, di crescita reciproca, di incremento di vita. 
E questa relazione, quindi questo rapporto con gli altri, questo legame che poi ci fa scoprire molta più vicinanza di quanto tante volte non ci rendiamo conto - vicinanza, intesa, corrispondenza, dalle piccole forme di unione a quelle più impegnative come quelle di coppia - ebbene queste due polarità sono tutte e due importanti: non possiamo rinunciare alla nostra personalità, identità personale, è bello che ognuno di noi possa dire: ma io sono io, è bellissimo, ma subito dopo deve aggiungere: ma come faccio a vivere senza di voi … senza il noi che è con-costitutivo del nostro io, io e noi stanno insieme in reciproca e benefica tensione.
Così il mistero di Dio diventa anche il mistero della nostra umanità, che mentre scopre la gioia della propria libertà personale, scopre anche la gioia e l’impegno che questa libertà deve essere capace di creare: vincoli autentici, relazioni profonde, relazioni vitali, promuovere la realtà insieme con gli altri …  E così la vita di Dio si impasta con la nostra vita personale e comunitaria. E a sua volta la nostra vita personale e comunitaria è il luogo più bello dove possiamo dire Ma allora Dio è qui, è con noi, è Colui che è il Signore e dà la vita, che ci rianima continuamente … Ovunque c’è un moto di vita, ovunque c’è uno slancio di comunione, ovunque c’è una voglia di relazione autentica, è lì il nostro Signore che ci dà la vita. Dove comincia Dio e dove finisce? Non possiamo più distinguerlo, dove comincia Lui e dove finiamo noi, non possiamo distinguerlo: perché siamo pensati dall’eternità, veniamo dall’eternità, tendiamo verso la pienezza …
E non dobbiamo pensarci in piccolo, no, proprio perché pensiamo Dio dobbiamo pensarci in grande, non per esaltarci, ma non impoverirci. E il modo migliore di pensarci in grande è quello di scatenare la comunione, liberare la comunione, così ci arricchiamo tutti, gli uni degli altri. E così possiamo parlare meglio di questa Vita dalla quale siamo abitati, coinvolti, tradotti, dalla Vita che è Dio stesso in noi e noi in Lui.
Celebriamola così la santa Trinità, come la comunione di vita condivisa con noi. E celebriamo noi, in quest’orizzonte, in quest’abbraccio immenso che ci attrae, che ci alimenta, che ci chiama a sé a vita sempre …  E tutte le esperienze nostre sono frammenti, sono prospettive di quest’immensità.
 (Omelia del 15.6.2014, chiesa di san Francesco Saverio, Palermo: il testo non è stato rivisto dall'autore, don Cosimo Scordato: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)

lunedì 7 luglio 2014

Elogio alla lentezza

“Bisogna  essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo (…) Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi (…) è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada (…) Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore (…) Andare lenti è il filosofare di tutti (…) essere fedeli a tutti i sensi, assaggiare col corpo la terra che attraversiamo, ringraziare il mondo, farsene riempire”. Così scrive il sociologo Cassano, ne “Il pensiero meridiano”. 
Dedichiamo le parole di Franco Cassano ad Alex Langer, ecologista e costruttore di pace, che manca dal 3.7.1995, proprio a lui che ci invitava a essere più lenti, più profondi e più dolci.

Maria D’Asaro   (“Centonove” n. 26 del 4.7.2014)

sabato 5 luglio 2014

Filippo Basile, un eroe normale

(Riporto integralmente dal  blog di Augusto Cavadi)
FILIPPO BASILE L’EROE NORMALE CHE RUPPE L’INGRANAGGIO DELL’OMERTA’
Filippo Basile

           L’ipercitata espressione brechtiana – “Maledetta la terra che ha bisogno di eroi” – nel Meridione italiano andrebbe riformulata. La nostra terra, infatti, mette spesso i cittadini ‘normali’ davanti a un bivio: o diventare eroi, malgrado se stessi, o diventare vigliacchi. Il medico legale come Giaccone, il giornalista come Fava, l’imprenditore come Grassi, il magistrato come Costa, il parroco di periferia come Puglisi … non decidono a tavolino di diventare martiri dell’antimafia: ma quando gli si chiede di firmare una diagnosi falsa o di pagare il pizzo possono optare fra la ribellione o l’obbedienza. Determinante è la storia e il contesto sociale in cui devono operare la scelta: se la maggior parte dei commercianti non paga il pizzo o la maggior parte dei preti si rifiuta di celebrare funerali solenni per defunti in odore di mafia, il commerciante o il prete rischiano poco. Ma se la regola statistica è altra, il loro dissenso diventa scandaloso: vanno subito puniti per evitare che il loro esempio diventi contagioso e la mafia perda il consenso sociale (senza il quale non è più mafia ma scade a delinquenza comune).
   Per Filippo Basile – funzionario dell’Assessorato all’Agricoltura e Foreste, con il compito di  coordinatore dell’Organizzazione amministrativa e funzionale -  firmare il licenziamento di un dipendente (Nino Velio Sprio), condannato per vari reati all’interdizione dai pubblici uffici, si configurava come un atto dovuto, un gesto di routine. Ma nel momento in cui la pratica del licenziamento si impantana per mesi nei labirinti burocratici e nei cavilli giurisprudenziali, per poi addirittura bloccarsi per più di due mesi sul tavolo dell’assessore competente (Salvatore Cuffaro), concittadino del dipendente condannato che si vantava per giunta di averlo come “figlioccio”, il funzionario che ha imbastito la pratica cessa di essere una rotella dell’ingranaggio: diventa un caso, un’anomalia. Un bersaglio potenziale eliminando il quale si ritornerebbe alla perversa ‘normalità’ delle omertà, delle collusioni, delle complicità attive o passive.
     Così il dipendente da licenziare assolda un sicario per far fuori il trentottenne Basile: e, come si evincerà da processi successivi, aggiunge un ulteriore assassinio al suo portfolio. La giustizia dei tribunali può raggiungere mandante ed esecutore materiale (Ignazio Giliberti) del delitto: ma solo la giustizia degli storici, della memoria civica, del senso etico può condannare quanti  - con l’atavica, perdurante sottomissione ai diktat mafiosi – sono oggettivamente complici dell’omicidio. Il convegno, organizzato per domani (sala gialla di Palazzo dei Normanni, ore 10) dal Servizio Formazione del Dipartimento regionale per la Funzione pubblica e del Personale, nel 15.mo anniversario della morte -  porterà dunque i frutti sperati solo se si andrà al di là del pur doveroso ossequio a un ennesimo martire della violenza mafiosa; solo se si capirà che a uccidere i siciliani giusti non sono soltanto singole menti criminali, ma un intero sistema di illegalità strutturale (effetto, e a sua volta causa, di una mentalità feudale per cui i rapporti  individuali fra un potente e i suoi homines prevalgono nettamente sulla comune subordinazione al diritto). Comunemente riteniamo che dare spazio agli adulatori, ai piccoli ruffiani, agli arrampicatori servili sia una concessione inevitabile alla tradizione o, al più, un “peccato veniale” perdonabile: è venuto il momento di capire che questo intreccio di tolleranza e di complicità finisce con lo stritolare le persone migliori. 
                                               Augusto Cavadi (La Repubblica/Palermo, 4.7.2014)

venerdì 4 luglio 2014

Grazie, Giorgio



Forse possiamo cambiarla,  ma è l’unica che c’è
Questa vita di stracci e sorrisi e di mezze parole …
Forse 100 anni o 200 è un attimo che va
Fosse di un attimo appena, sarebbe con me …
Tutti i vestiti di vento a inseguirci nel sole
Tutti aggrappati ad un filo e non sappiamo dove …








mercoledì 2 luglio 2014

Nostra signora e il suo tempo libero


    Nostra signora era lavoratrice dipendente da quando aveva 20 anni. Così da 36 anni, se a nostra signora faceva male un dente, doveva chiedere permesso per andare dal dentista; doveva chiedere permesso per assentarsi se il bambino aveva 39 di febbre o se desiderava aggiungere un giorno a un “ponte” di aprile.
    La sua vita correva ai ritmi inumani di un ticchettio forsennato: preparare il pranzo, avviare la lavatrice, studiare, scrivere una relazione, correre al lavoro, parlare con la preside, accompagnare un figlio agli scout, stendere il bucato, leggere, scrivere, tornare al lavoro, fare la spesa … Sorte per niente originale, si sa: condivisa con tutte le donne che hanno la fortuna di avere un lavoro.
    Così, quando era in ferie, nostra signora era attraversata da una sensazione di leggera follia: poteva fare pipì con calma, senza guardare con ansia l’orologio; poteva stirare alle 9 di mattina anziché alle 11 di sera; poteva sfogliare un libro di poesia, guardare i gabbiani, ammirare un tramonto … Poteva persino dormire, quando aveva sonno. 
    E scrivere post scemi, proprio come questo.