sabato 28 settembre 2013

Pane bianco, uomo nero


    Tra gli altri impiegati e le commesse col grembiule, lui si nota subito: pelle scura, capelli soffici che dicono più Eritrea che Nigeria, un accenno di barba curato, maglietta sbiadita, pantaloncini e le infradito ai piedi. Ti colpisce il suo sguardo: intelligente, acuto, profondo. Di uno che ha dentro tanti orizzonti. A fine giornata, quando compro i panini per la cena, lo trovo spesso appoggiato al muro esterno del panificio, chiuso nei suoi pensieri, a guardare in silenzio la gente e il buio della sera. Se non fossi una donna, avrei tentato un abbozzo di dialogo con lui. Ma so che non me lo posso permettere. E poi non è detto che parliamo la stessa lingua. Così non saprò mai a cosa pensa, da dove viene, per cosa sta lottando. Gli auguro di cuore che a Palermo trovi le condizioni minime per una vita piena, degna di essere vissuta.
                                             Maria D’Asaro (“Centonove”, n.36 del 27.09.2013)

mercoledì 25 settembre 2013

domenica 22 settembre 2013

Pronto, sono Stefania …


    Da Trieste a Palermo, le telefonate promozionali sono una noia ricorrente per chi ha il telefono fisso: - Salve, sono Stefania: le propongo una nuova offerta di luce e gas. - Sono Lorenzo: la sua famiglia è stata sorteggiata per una vacanza … - Reggo a stento l’infinita litania di promozioni, accompagnata da un approccio falsamente confidenziale. La prima reazione è mandare a quel paese il venditore di turno. Però, da qualche tempo, ho deciso di reagire in modo diverso: col tono più garbato possibile, rispondo al mio interlocutore che non sono interessata all’offerta, ma capisco il peso del suo ingrato lavoro, e gli auguro buona fortuna. L’operatore resta un istante in silenzio, spiazzato dalla mia sincera solidarietà e alla fine quasi sempre ringrazia commosso. La telefonata assume così un sapore decisamente più umano: nonostante il mancato contratto, lo scambio vocale ha generato una corrente fugace di empatia e compassione.
                                                                   Maria D’Asaro (“Centonove”, n.35 del 20.09.2013)

venerdì 20 settembre 2013

Nostra Signora e il fuoco virtuale

    Un gatto, un cane. Un camino, un giardino. Forse non sarebbero mai esistiti, nella sua casa.
Con Irene, settembre 1986

Ma,  le ricordava qualcuno: “la felicità, quando non accade, è in gestazione. «Chi vi impedisce – suggerisce il poeta Rilke – di vivere la vostra vita come un bello e doloroso giorno nella storia di una grande gestazione?» . Si sa, le gioie fecondano, ma i travagli portano alla luce la vita. Forse attorno a questo fuoco possiamo ritrovarci compagni di viaggio.” 
   Nessuno avrebbe sottratto a nostra Signora il suo caldo camino virtuale.

mercoledì 18 settembre 2013

Lalala ...

Una canzone proposta da mio figlio Luciano.
Il video riecheggia Il Mago di Oz.



martedì 17 settembre 2013

Le priorità della politica


     Secondo l’Earth Overshoot Day, che calcola la data in cui ogni anno il fabbisogno umano supera la capacità del pianeta di rigenerare le proprie risorse, quest’anno la terra è entrata “in riserva” già il 20 agosto (con due giorni di anticipo rispetto al 2012), quando ha esaurito le risorse disponibili per il 2013 e ha iniziato a consumare quelle riservate agli anni successivi. Si calcola che se tutti vivessero come gli statunitensi, avremmo bisogno di sette Terre; per il tenore di vita degli europei, ne “basterebbero” solo 3 e mezzo, quattro per gli italiani. E’ facile immaginare le conseguenze disastrose per il pianeta di una tale irresponsabile crescita dei consumi. Chi ha oggi responsabilità politiche, dovrebbe imporre stili di vita eco-compatibili. Ma, ahimè, per tanti politici italiani, anzichè la salute nostra e del pianeta, il primo pensiero è la salvezza della poltrona di un senatore condannato dalla Corte di Cassazione.
                                                                        Maria D’Asaro (“Centonove”, n.34 del 13.09.2013)


domenica 15 settembre 2013

Padre Pino Puglisi: due libri a confronto

   Vent’anni fa, il 15 settembre 1993, Cosa Nostra assassinò padre Pino Puglisi. Il 25 maggio scorso la Chiesa cattolica lo ha proclamato beato per la sua opera di evangelizzazione e promozione umana, riconoscendone il martirio per mano della mafia “in odium fidei”. Di recente due libri hanno riproposto in modo diverso, ma egualmente efficace, la vita e l’opera di 3P. 
Il primo, Beato tra i mafiosi (Di Girolamo, Trapani, 2013, €15) è un saggio a più voci, in cui i tre autori, Francesco Palazzo, Augusto Cavadi, Rosaria Cascio, ci offrono insieme un’inedita ricostruzione storico-sociale di Brancaccio, il difficile quartiere in cui 3P fu assassinato, alcune riflessioni filosofico/teologiche sulle caratteristiche di “un prete (quasi) normale” e una sintesi del senso e del valore pastorale del metodo “puglisiano”.
    Francesco Palazzo ci tiene a sfatare un luogo comune: che a dare fastidio alla mafia sia stata soprattutto l’azione di padre Pino a favore dei bambini. Mentre, secondo le testimonianze raccolte e la convincente analisi dell’autore, padre Puglisi, forse lasciato un po’ troppo solo dalla Chiesa ufficiale, sarebbe stato ucciso perché operava “in maniera sistematica e insistente con gli adulti nel territorio, fuori dalla sagrestia”. Adulti del territorio per i quali venne fondato un centro di accoglienza e di promozione umana, il centro “Padre nostro”, che avvicinava le famiglie dei carcerati e aiutava le persone a essere protagoniste della loro vita e delle loro scelte. Gesto dirompente, in un quartiere in cui la mafia aveva il controllo del territorio. 
   Ma che tipo di prete era 3P? Sebbene egli stesso abbia detto chiaramente di non sentirsi un prete antimafia, Augusto Cavadi sottolinea che non per questo padre Pino è stato neutrale o equidistante, perchè “chi si alimenta alla fonte del Vangelo (…) e della costituzione italiana (…) non ha bisogno di etichette estrinseche”. Cavadi accosta poi la sua figura a quella di mons. Oscar Romero, il vescovo assassinato a san Salvador. Entrambi: “quando vedono con i propri occhi il volto demoniaco del dominio violento e prevaricatore, non arretrano. Capiscono che, pur essendo in primis responsabili dell’evangelizzazione, non possono limitarsi ad essa: devono prepararla, accompagnarla e seguirla con un’azione di promozione sociale”. Ecco allora il metodo “puglisiano” delineato da Rosaria Cascio: testimoniare il Vangelo dentro la storia, non considerare la parrocchia solo come dispensatrice di sacramenti, aprire la comunità ecclesiale alle attese e ai bisogni del territorio, con un’attenzione particolare per gli ultimi.
   Ritratto a tutto tondo dell’uomo e del sacerdote, quello di Francesco Deliziosi  in Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso (BUR, Milano, 2013, €11):
 libro che, sulla base di una documentazione ampia e approfondita, fa emergere la figura di un prete di cui non si può non essere affascinati. Grazie anche al profondo e consolidato legame di amicizia tra l’autore e padre Puglisi, che lo ebbe come allievo al liceo dove insegnava, Deliziosi ci offre una monografia davvero ricca e attraente, che dopo aver esplorato gli anni della sua formazione, ci racconta le sue vicende di parroco a Godrano, piccolo centro della provincia a 750 metri, dove 3P scherzosamente esclamava : “Sono il prete più altolocato della diocesi”. 
   A Godrano padre Pino, chiamato “u parrinu chi cavusi”, riesce a riconciliare famiglie che si odiavano per una faida vecchia e sanguinosa. Il libro percorre poi gli anni trascorsi a Palermo dove, prima di accettare per spirito di servizio di fare il parroco a Brancaccio, padre Puglisi sarà direttore del centro diocesano vocazioni e si occuperà di formazione e assistenza spirituale a 360° per giovani e non. Un prete con “un’attitudine straordinaria all’empatia (…) che ti dava la calda certezza di guardare solo te e di parlare solo con te, tu e lui soli nell’universo. Se ci incontreremo col Signore (…) io credo che avremo la stessa sensazione”. Un prete che, secondo l’ideale di Karl Rahner, fu capace di sopportare “la pesante oscurità dell’esistenza assieme ai fratelli” e di avere il coraggio “di far sua la non-forza della Chiesa”. Un prete che Cosa nostra decide di uccidere perché, come dirà il mafioso Bagarella “predica tutta ‘arnata (tutto il giorno)”, nella “costruzione di un’alternativa che svuotava dall’interno lo spazio della mafiosità”. Un prete “palermitano di Brancaccio, obbediente, povero, buono, coraggioso, impossibile da infangare, impossibile da zittire”. Un prete esile e minuto che, per non perdere tempo, mangiava … nelle scatolette e che, col suo sorriso e la sua carica umana e spirituale ridava la voglia di vivere anche a persone duramente provate dalla vita. Un prete che rispondeva a chi gli diceva di non sfidare i mafiosi: “Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. E allora?”, mostrando la sintonia con le parole pronunciate nel 2000 da Giovanni Paolo II: “Il credente che abbia preso in seria considerazione la propria vocazione cristiana (…) non può escludere la prospettiva del martirio dal proprio orizzonte di vita.” Un prete che, in un colloquio con un amico ferroviere, gli ricordava che i santi non sono figure reali, irraggiungibili, ma persone che hanno vissuto in coerenza con Cristo. 
    E allora, da questi due ottime rivisitazioni della sua vita e del suo impegno, un’unica raccomandazione: non trasformare padre Puglisi in un’icona da venerare, ma raccoglierne il testimone. Iniziando  a vivere un cristianesimo incarnato che mostri con i fatti che mafia e Vangelo sono incompatibili. Che in quest’opera, difficile e per nulla scontata, il sorriso di 3P, “che fece tremare la mafia”,  ci accompagni e ci illumini.  
                                                              Maria D’Asaro   (“Centonove” n.34 del 13.9.2013)                                                                                             

venerdì 13 settembre 2013

Two wonderful smiles

     
Dott. Salvatrice (Sally) D'Asaro
    One of the worst experiences of my life was the death of my only sister. Her name was Sally. She was younger than me: she had got brown hair and green dark eyes. She was a very good doctor. But her profession didn’t save her from a malignant tumour. It was terrible for me to see her dying little by little. She was 41 only. She died in 2001, on 13th September. Twins Towers’ destruction – happened on 11th September, two days before - and my dear sister’s death are joined by an invisible sad thread. 
What’s about her in my life?  A deep empty space. And her wonderful smile.
Dott. Eleonora Cantamessa


 
   It' died tragically while lent aid to an injured in a fight  in Chiuduno (Bergamo), Eleonora Cantamessa, a 44 year old doctor of Bergamo who works at the hospital Sant'Anna, Brescia. It 'happened on Sunday night, the eighth of September.

   The woman was well known and respected for her work as a gynecologist: let parents and brother of 35 years.

mercoledì 11 settembre 2013

Bentornato, Domenico.

Riporto il video dell’intervista di Domenico Quirico a RaiNews24, di cui sottolineo alcune frasi:
“La quintessenza del mio mestiere è raccontare ciò che si vede. Quello che non vedo, non lo racconto. Raccontare la commedia o la tragedia umana di cui si è testimoni è, appunto, l’essenza del giornalista … Raccontare il mondo è parlare del rapporto tra bene e male, tra colpa e redenzione, tra peccato e pentimento … Quello a cui ho assistito in Siria è la presenza del male, dell’assoluto non bene: di un mondo dove anche i vecchi e i bambini hanno cancellato la misericordia, la compassione, l’empatia verso l’essere umano simile a te … Il male assoluto è quando qualcuno gode della tua paura. E’ quando tu percepisci che nell’altro essere umano, a dieci centimetri da te, avverti il piacere di farti male, il piacere di avere il potere assoluto verso di te …Vorrei continuare a raccontare la sofferenza collettiva: è quella che ci rende vivi, responsabili, che fa da collante per l’umanità …
Essere prigionieri insegna l’importanza delle cose semplici. La libertà è potere fare le cose semplici: bere un bicchier d’acqua fresca, usare la forchetta, dormire su un letto anziché su un pagliericcio.”

Bentornato, Domenico. Grazie. 


lunedì 9 settembre 2013

Alla ricerca di una sana sessualità perduta

(tratta dal blog di Mia Camilla Lazzarini)

A fine luglio, a Palermo, un prete cattolico è stato arrestato per sfruttamento della prostituzione minorile maschile. Tra i tanti commenti  sulla vicenda, si è distinto per acutezza di analisi quello di Augusto Cavadi, (“La Repubblica”-Palermo, 25.7.2013): Cavadi scrive che, pur senza una correlazione significativa tra pedofilia e celibato, esiste però una contraddizione tra quanto predicato dalla Chiesa cattolica su sessualità e omosessualità e una certa prassi diffusa da secoli al suo interno. Conclude invitando i cattolici a una corretta rilettura del messaggio sessuale biblico, a una fedeltà più attenta alle parole di Cristo e alla tradizione dei primi secoli di storia cristiana. Affinchè la Chiesa, ma anche “un’umanità meno violenta e più fraterna, riconciliata con gli altri animali e con il cosmo naturale, possa riscoprire la sessualità non come oggetto di compravendita del tutto prosciugato da ogni traccia di amore autentico, ma come linguaggio di comunicazione e di interscambio.” 
                                                                 Maria D’Asaro (“Centonove”, n.32/33 del 06.09.2013)

sabato 7 settembre 2013

Se la top model svela la verità

Condivido quanto letto nel blog dell'amico Augusto Cavadi.
Riporto integralmente l'articolo pubblicato il 6.9.2013 su "Repubblica – Palermo”.

Non sapevo che la top model Eva Riccobono – madrina del Festival di Venezia - fosse palermitana.
 L’ho appreso (rammaricandomi di non averla mai incontrata nei suoi diciannove anni di vita isolana) dai giornali che hanno riportato una sua dichiarazione a “Vanity fair”: “Vado una volta al mese a Palermo per ricaricarmi, ma alcune cose dei palermitani non mi piacciono come la mentalità mafiosa. Detesto quelli che si lamentano sempre e che vogliono la raccomandazione e soprattutto il familismo e i soprusi”.
   Sapevo, invece, che una dichiarazione così sincera e veritiera  - eco della più celebre e autorevole dichiarazione di Paolo Borsellino su Palermo “città bellissima e disgraziata” – avrebbe suscitato immediate reazioni da parte di politici di specchiate virtù civiche, che nella loro carriera non hanno mai né chiesto né fatto raccomandazioni di nessun genere. La strategia comunicativa per avere il nome in cronaca è ormai straconosciuta.
    Primo passo: amplificare l’estensione della dichiarazione e fare dire alla Riccobono che “tutti” i palermitani hanno mentalità mafiosa.  In modo da tentare di portare dalla propria parte oves et boves:  cittadini mafiosi  (per “fatto personale”), cittadini antimafiosi (per “lesa maestà”) e cittadini amafiosi (che non vogliono passare per nessuna delle due categorie, per altro minoritarie, precedenti). Che grazie all’azione dei magistrati (non di rado senza il sostegno dei politici) e dei segmenti migliori della società (come “Addiopizzo” e “Professionistiliberi”) si siano fatti enormi passi in avanti nella lotta al dominio mafioso non significa che questo sia scomparso dalle stanze dell’amministrazione regionale;  dai quartieri ricchi e meno ricchi in cui gli imprenditori continuano a sottostare ai soprusi del racket; dalle strade dove un’accurata regia distribuisce, con ammirevole precisione toponomastica, le zone ai posteggiatori abusivi (che non hanno neppure il lontano sospetto del ridicolo quando organizzano la manifestazione di protesta contro le forze dell’ordine che accennano a liberare gli automobilisti dall’intimidazione incessante e onnipresente)…
    Secondo passo: negare l’evidenza. Per esempio che la stragrande maggioranza dei palermitani sia specializzata nelle “lamentele” (contro il governo, contro il sindaco, contro i vigili urbani, contro gli autisti dell’Amat, contro i posteggiatori abusivi, contro gli altri concittadini che non si lamentano abbastanza…), ma non voglia spendere neppure un’ora la settimana per organizzare la protesta, farla diventare proposta politica, supportarla con adeguate azioni mirate nell’ambito della legalità democratica.
    Terzo passo: inventarsi qualche “rivoluzione in atto” che ridurrebbe a mero “luogo comune”, valido se mai per il passato, la constatazione che nella nostra città si è alla  “costante ricerca della raccomandazione'”. E’ dalla “Primavera di Palermo” di un quarto di secolo fa che i giovani si sarebbero ribellati alla mafia, avrebbero ripudiato il clientelismo, sarebbero strenui difensori della meritocrazia. Ma sfugge un piccolo particolare: i giovani di venticinque anni fa sono gli adulti di oggi e  - fatte le debite eccezioni – continuano a gestire le leve del potere (politico, amministrativo, culturale…) con le stesse insopportabili modalità dei padri e dei nonni. Sostenere, come si è fatto in queste ore da scranni istituzionali di tutto rilievo, che le raccomandazioni sono dappertutto in Italia, significa non voler vedere la differenza fra la patologia, che a Torino o a Perugia viene bollata come tale, e la stessa patologia che a Palermo o a Reggio Calabria viene scambiata per fisiologia. Come ha scritto il sociologo Antonio La Spina qualche anno fa, da Napoli in giù siamo ben al di qua dell’alternativa legalità o illegalità: sguazziamo nell’alegalità. Non prendiamo neppure in considerazione le norme che, disinvoltamente e abitudinariamente, violiamo.
   Comunque è superfluo addizionare argomenti razionali ad argomenti: alla pancia  - e alla demagogia – non si comanda. Ogni volta che esce un film, un libro, un’indagine giornalistica sulla mafia si ripete noiosamente il medesimo copione: la colpa è di chi osa denunziare i mali, non di chi li provoca e più o meno colpevolmente li perpetua.                                                                             Augusto Cavadi

giovedì 5 settembre 2013

Un libro per l'estate (e non solo...): Sto bene è solo la fine del mondo

    Cosa si prova a vivere in una famiglia la cui madre è diventata una convinta adepta dei Testimoni di Geova? In Sto bene è solo la fine del mondo (Longanesi, Milano, 2013 ,€ 14.90), libro a metà tra romanzo ed esperienza autobiografica, Ignazio Tarantino racconta come cambia il mondo di Giuliano, che a sette anni è catapultato in un universo parallelo, dove la realtà viene filtrata attraverso lo spauracchio della continua presenza demoniaca e dell’imminente fine del mondo, alla cui catastrofe fisica e spirituale solo gli  appartenenti alla setta potranno scampare.
Così per Giuliano e per i suoi cinque fratelli inizia una vita di piena di steccati e di privazioni: niente feste di compleanno e nessun brindisi a Capodanno; nessun presepe né albero di Natale, niente scambio di regali, né cenoni e scambio di auguri, nessuna recita o poesia a sfondo natalizio. Di conseguenza, nella casa del ragazzino, le immagini di Cristo, della Madonna e dei santi finiscono nella spazzatura. E il ragazzino e i suoi fratelli, per non perdere l’affetto e il contatto con la madre, diventano membri - più o meno convinti - della “Società” e delle sue norme ferree, che decidono persino il tipo di taglio dei capelli, l’esatta lunghezza delle gonne e vietano tassativamente ai ragazzini di frequentare i compagni di scuola al di fuori dell’orario di lezione perché “frequentare gli infedeli era un peccato mortale”.
Il libro, scritto tutto in prima persona, si snoda come un romanzo di formazione: Giuliano, che abbiamo preso in consegna nelle prime pagine a sette anni, lo lasceremo con un diploma in tasca e con la sofferta decisione di cambiare aria e prospettive, dentro e fuori di sé. La narrazione è calata opportunamente in una cornice spazio-temporale: inizia alla fine del 1980; cita la vittoria dell’Italia ai mondiale del 1982; si sofferma sul disastro nucleare di Cernobyl additato dalla setta come prova sicura dell’ormai prossimo “Armageddon”; passa poi per la caduta del muro di Berlino del 1989 e la fine dei regimi comunisti e si conclude con le note dei R.E.M. che, all’inizio degli anni ’90, cantavano It's the end of the world as we know it, and I feel fine.
Punto di forza del romanzo è lo stile piano e scorrevole, costruito interamente sulla paratassi, cifra linguistica dominante che rende la lettura semplice e accattivante. Punto di debolezza appare invece, a mio avviso, un certo affastellamento psicologico: è poco credibile che Giuliano non venga "toccato" in tempo dalle emozioni regalategli dalla sua ragazza, dai campanelli d’allarme lanciati da una dubbiosa “sorella spirituale” e dalla tragedia che capita a uno dei suoi fratelli. 
Alla fine, comunque il lettore si trova in mano nel complesso un saldo positivo. E un accresciuto fardello di compassione: perché il messaggio forte che viene fuori dal libro è che, sebbene la partecipazione a una setta fanatica può essere scelta in cambio di una disperata solitudine, non è giusto che persino dei ragazzini debbano passare l’estate “con la valigetta in mano sul lungomare e vedere gli altri sdraiati a prendere il sole” perchè qualcuno li ha convinti che la fine del mondo è vicina e loro devono salvare se stessi e gli altri. Perchè “non si può mantenere sempre il controllo e chiedersi continuamente se ciò che fai è giusto o sbagliato, se dietro una carezza c’è un approccio sessuale”.
E allora viva l’illuminismo, viva il dubbio sistematico, viva la filosofia se, in alternativa a un opprimente credo religioso, riescono a renderci più liberi e consapevoli. 
                                                Maria D'Asaro  (“Centonove” n.38 dell’11.10.2013)