martedì 20 agosto 2013

Un libro per l'estate (e non solo): Il libro dell'ignoto


Ci sono libri per l’estate e libri per l’inverno. Libri per donne e libri per bambini. Libri di fantasia e libri pregni di realtà. Libri per dotti e libri per gente comune.  Il libro dell’ignoto di Jonathon Keats (Giuntina, Firenze, 2010, € 16) è un libro per tutti e per tutte le stagioni. Perché è nutriente, è un libro che cura. 
Il libro dell’ignoto racconta le storie di dodici creature, sei donne e sei uomini, che vivono in luoghi immaginari sospesi nel tempo e nello spazio. Jonathon Keats  si cela dietro le vesti di Jay Katz, fantomatico professore universitario studioso di riti e tradizioni ebraiche. Il professore va in giro in villaggi sperduti ad ascoltare le storie di ladri, idioti, sgualdrine, falsi messia che, secondo la pergamena di un misterioso cabbalista, sarebbero alcuni dei Lamed-vav, i trentasei giusti necessari in ogni epoca per giustificare l’esistenza dell’umanità agli occhi di Dio. 
Al riparo di questo pretesto narrativo, la fervida fantasia dell’autore, in sinergia con una costante tensione metafisico-filosofica, ci presenta  personaggi imperdibili: Chet l’imbroglione,  mangiatore di peccati: la sua “non era una professione semplice. Colui che la esercitava doveva essere penitente in ogni momento, e doveva fare attenzione a non peccare mai, neppure in sogno”; Yod-Bet la ribelle: “pallida come la paura e fragile come la fortuna”, caduta sulla terra dopo un terribile scroscio celeste, come tutti gli angeli espulsi dai cieli per crimini contro il paradiso che “precipitano nella notte luminosi come fiamme e la gente chiama stelle cadenti”; Tet il fannullone, che viveva in un paese dove si lavorava senza sosta e le campane suonavano in continuazione perché colpite da “insonnia cronica”; Alef l’idiota, al quale si poteva far credere che “il pesce di scoglio dentro il suo secchio si sarebbe pietrificato e offrirgli … di barattarlo con un verme che gli avrebbe portato più fortuna”.
La cornice fiabesca e il "topos" dell’indeterminazione spazio-temporale non impediscono a Keats di parlarci dell’oggi e di dire chiaramente la sua tra la filigrana delle vicende fantastiche: nella storia di He la clown viene messo alla berlina il concetto stesso di potere, che combatte persino per affermare se “era l’est che tratteneva il sole al mattino, oppure era l’ovest che se ne appropriava la sera”. Alla fine però la guerra viene sconfitta da una risata e tutta la vicenda può essere considerata un perfetto manifesto antimilitarista e nonviolento. La storia di Tet il fannullone, che restituisce alla sua città il sonno e la veglia e il giusto equilibrio tra l’ozio e il lavoro, dovrebbe essere meditata a Milano, come a Tokyo e San Francisco,  metropoli ossessionate dal mito della crescita a tutti i costi. E Tet potrebbe divenire il leader di un qualsiasi movimento della decrescita felice, che, anziché pensarli come scopo ultimo  della vita sociale, ricollochi gli affari, la produzione e il commercio a semplici mezzi per vivere. 
L’autore ci offre inoltre una sapiente contaminazione tra estro fantastico e riflessioni etiche di notevole spessore: che evidenziano il valore del pensiero divergente e la feconda dialettica tra l’opera del singolo uomo/donna e la trasformazione della comunità.
Jonathon Keats e Silvia Pareschi
Il testo infine, magistralmente tradotto da Silvia Pareschi,  è impreziosito dalla particolare cifra stilistica dell’autore, che, in più tratti, richiama i voli di fantasia e le preziose suggestioni del Calvino de “Le città invisibili” e, per la freschezza e la grazia con cui vengono narrate le scene d’amore, ricorda qualcosa di  Erri De Luca.
 Il libro lascia quindi nel palato del lettore un retrogusto profumato e nutriente. Qual è infatti il segreto di questi dodici Lamed-vav?  Intanto che “la santità, al contrario dell’eroismo, è qualcosa di quotidiano”. C’è un collante, un filo rosso che lega le dodici storie: i dodici personaggi sono capaci di amore e di perdono. Il loro cuore sa che l’amore è la chiave di volta di tutte le relazioni umane, il balsamo che guarisce tutte le ferite. Come Yod l’inumana, imparano anche “una sensazione nuova, diversa dal dolore e dal piacere ma anche dai frutti eterogenei della loro unione, le passioni sorelle di odio e amore (…) Yod non lo sapeva ancora, ma gli altri la chiamavano compassione”.
Alla fine allora, la realtà da ricercare non è il paradiso, che “potrebbe essere bello o brutto come qualsiasi altro posto, ma diventa terribile perché vuol essere perfetto”, né la sapienza e neppure la salvezza egoistica della propria anima. Perché, come ci ricorda Paolo di Tarso:  “Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla.”
Grazie allora a Jonathon Keats, che attraverso le storie dei dodici giusti ci ricorda che solo l’amore, nelle sue molteplici declinazioni, oggi come ieri, è in grado di salvare il mondo.
                                                                                                        Maria D’Asaro

sabato 17 agosto 2013

Palermo/Stoccolma: cure a confronto

Stoccolma: veduta aerea

   Può capitare a Palermo, può capitare a Stoccolma: che di notte qualche balordo avvicini un turista con una scusa e attacchi briga. E’ capitato a Palermo: il passante ha subito una rapina ed è rimasto tramortito con un bernoccolo in testa. E’ capitato a Stoccolma: il malcapitato è stato malmenato da un ubriaco che gli ha sfregiato il volto lanciandogli un vasetto che aveva in tasca. I due aggrediti sono finiti ai Pronto Soccorso delle rispettive città, dove sono stati curati e medicati. Ma per il turista ferito a Stoccolma al danno è seguita la beffa: le cure necessarie gli sono costate 230 euro. Il ferito a Palermo è stato curato gratis. Per una volta, la nostra Palermo ha battuto per civiltà ed efficienza il decantato Nord del mondo. Pensiamoci, quando cantiamo le lodi in astratto dei modelli sanitari esteri. Combattiamo gli sprechi, ma teniamoci stretta la gratuità delle cure essenziali.
                                                                     Maria D’Asaro (“Centonove”, n.31 del 09.08.2013)

martedì 13 agosto 2013

Prego: dunque amo, spero, agisco ...

don Cosimo Scordato

   Forse dobbiamo chiarire un equivoco per non imbatterci nelle consuete difficoltà che accompagnano la nostra riflessione quando ci capita di parlare della preghiera e per giunta della preghiera di domanda. Molti di voi potrebbero dire: io ho chiesto e mi è stato dato; altrettanti potrebbero dire: io ho chiesto e non mi è stato dato. Qualcuno potrebbe dire: io ho ricevuto un miracolo … e la maggior parte di voi invece: io non ho ricevuto alcun miracolo. Il che ci porrebbe in una difficoltà insormontabile a pensare tutto questo in rapporto a Dio. E allora proviamo  a tradurre un’espressione che conosciamo a memoria, dal libro della Genesi: anziché dire:  E Dio vide che era bello, buono … ma al tempo passato o al presente, cominciamo a tradurlo, cosa possibile in lingua ebraica, al futuro: E Dio vide che dovrà essere bello, dovrà essere buono. 
   E Lui è questo nostro futuro, dal quale ci invita a guardare la realtà. Una realtà nella quale ogni giorno veniamo smentiti, per tante cose che succedono agli altri, ma anche a noi, a persone a noi care … quante smentite riceviamo, rispetto ai nostri desideri, progetti, giuste aspirazioni. Ebbene, di fronte alle smentite continue che ci vengono da una realtà che proviene dal nulla – la creazione è un’opera incompiuta di Dio, e sarà compiuta solo alla fine – se noi cominciamo a pensare che Dio ci promette una realtà buona, bella, e ci chiede una mano di aiuto per fare ognuno la parte che possiamo … E qual è la parte di Dio? Quella di essere accanto a noi, di non imporre niente alla realtà, perché la creazione è anche un frutto del caos: quell’ordine che si va configurando si porta appresso tanti percorsi casuali. E dentro c’è anche la storia della libertà dell’uomo.
   E allora cosa diventa quest’annuncio del Vangelo? Cercare la volontà di Dio nella direzione giusta, per quel poco che riusciremo a realizzarla. In che modo? Attingendo alla paternità di Dio, a quest’amore che ha Lui verso di noi, a quest’accondiscendenza, a questa partecipazione totale: Dio che vive il dramma della nostra umanità insieme con noi, per davvero, sino in fondo.
E come ci aiuta a caricarcene, a portarlo, a superarlo, quando ci riusciamo? Amando, donando, perdonando, liberandoci … E qui ci incontriamo con lo stile di preghiera del Padre nostro, che non è una preghiera, è un modo di pregare. Ma poi come dovremmo pregare? Primo atteggiamento: papà, non sei la controparte, tu sei papà mio, e io sono figlio tuo. Così ci ha insegnato Gesù a pensare e a parlare e ad agire: amati dall’eternità e per sempre. Pensati con amore e per amore. Chiamati a tradurre questo nome personale di Dio nei mille gesti della vita quotidiana, ripeto, limitatamente a quello che riusciamo a fare poi nella nostra storia.
   E che cosa e in che modo possiamo tradurre questo nostro relazionarci a Lui? Col pane, col lavoro, il perdono e la libertà, la liberazione: pane, lavoro, perdono, liberazione. Darci il nostro pane significa la gioia di guadagnarci un pezzo di pane: che tutti abbiamo questa gioia, ma perché è affidata a noi. Lo chiediamo a Dio perché è una responsabilità nostra. Dio ci ha detto di trasformare la terra, ma questo è affidato alle nostre mani. Siamo noi che dobbiamo creare occasioni di lavoro: un lavoro dignitoso, creativo, partecipativo, di trasformazione del mondo: perché la creazione è incompiuta, l’uomo la deve migliorare umanizzandola col lavoro e con i frutti della terra, gioendo insieme dei frutti della terra. Il perdono è importante! Perché nessuno di noi è giusto, prima o poi sbaglieremo, o abbiamo già sbagliato! E Dio che ci dice di perdonarci tra di noi, non Lui che perdona: Dio ci ha sempre perdonati. In Gesù Cristo, Dio si è dimenticato tutto. Siamo noi che non riusciamo a dimenticare il torto che abbiamo subito - dalla vita, dagli altri - e ce lo trasciniamo appresso.
Il perdono … e poi la liberazione da tutti i mali: quello è un compito tutto nostro. Di grande responsabilità, ma bellissimo.
   Questo chiedere di imparare a liberarci, a perdonarci, a lavorare e a condividere il pane: le cose essenziali della vita, chiediamo che il Signore ci insegni a scoprire. Perché poi le facciamo noi, perché è bello che le facciamo noi, perché qui c’è l’essenza della nostra realizzazione. Come ci vorremmo realizzare, se non creativamente, attraverso il lavoro; se non misericordiosamente, mettendo in conto che, prima o poi, sbagliamo tutti, è inutile puntarci il dito, rimettiamoci insieme, risolleviamoci … E poi liberiamoci da tutto quello che ci stiamo trascinando dalla storia: condizionamenti mentali, culturali, psicologici … condizionamenti storici, politici, conflitti del passato. Impariamo a liberarci.
E quindi è la preghiera del futuro con la quale ci possiamo avvicinare a Dio stesso: meglio, Dio cerca di avvicinarci a noi, così man mano che noi sperimentiamo tutto questo. Allora capiamo che dire papà già comprende tutto, fa crollare ogni sistema, fa crollare ogni mitologia, ogni tempio. Perché il nostro rapporto col Padre è unico, insostituibile: questo non ce lo può toccare nessuno. 
E la Chiesa non è per mettersi in mezzo tra noi e il Padre. La Chiesa è lo spazio in cui la fraternità prende forma per diventare filiazione: figli nel Figlio, liberati da ogni oppressione. Quindi il rapporto col Padre è l’esperienza più bella della nostra libertà. E dono dello Spirito Santo. Che è l’unica cosa che Gesù ci garantisce: chiedete e vi sarà dato. Ma che cosa? Uno spirito nuovo dentro di noi. Lo Spirito di Dio dentro di noi: Dio stesso in noi che fa un tutt’uno con la nostra vicenda umana, e la porta insieme con noi, non sostituendosi a noi, non sostituendosi alle leggi della natura, non sostituendosi alla libertà di scelta, ma accompagnandola e ridestandola sempre, per farla diventare una scelta di amore, di dedizione, di servizio, di riconciliazione. E di ripartenza verso questa pienezza che non possediamo mai, verso la quale possiamo solo anelare, nei frammenti che riusciamo a realizzare strada facendo.
Quindi e Dio vide che sarà bello, che sarà buono. In questo sarà c’è tutto il nostro impegno di avvicinare la sua promessa attraverso le scelte della nostra libertà.

(il testo non è stato rivisto dall'autore, don Cosimo Scordato: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione. Omelia pronunciata da don Cosimo il 28.07.2013, XVII T.0. – anno C. I lettura: Genesi 18, 20-21.23-32;Salmo: 137;II lettura:  Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi 2,12-14;Vg:  Luca 11, 1-13)

domenica 11 agosto 2013

Nessuna






Nessuna
Stella cadente
Donerà nuova luce
Alla notte dei desideri.
Nessuno.              

Brinda






Brinda
Col Calice
Della Solitudine Scelta:
Di nero vuoto, ubriacati.
Dormi.                                      

sabato 10 agosto 2013

Giostra




Giostra
La vita
Che gira, fugace:
un sorriso, si scende.
Mistero.                          


venerdì 9 agosto 2013

Grazie, Franz ...

  

   Franz Jägerstätter fu un contadino austriaco che osò opporsi al regime hitleriano. Chiamato alle armi nel 1943, in pieno conflitto mondiale, dichiarò che come cristiano non poteva servire l’ideologia hitleriana e combattere una guerra ingiusta. La scelta e la vita di Franz sono riferibili ad una radicalità evangelica che non ammette repliche: in lui la coerenza diventa fattore distintivo, non per preconcetti ideologici o per un astratto pacifismo, ma perché si lascia condurre dalla concreta adesione ai valori di ciò in cui crede. 
    Nella vicenda umana e religiosa di F.Jägerstätter emerge con forza il primato della coscienza: Franz si pone in fermo ascolto di ciò che “gli sembra giusto”. Lo fa con enorme sofferenza, perché deve andare contro ciò che ha di più caro, la famiglia (la moglie e le tre figlie in tenera età) contro i pastori della Chiesa, contro i suoi concittadini, di cui “sente” la disapprovazione. L’atteggiamento etico di Franz fa leva sulle “cose ultime”, le cerca e le desidera. Non le pone sullo sfondo del proprio agire, ma le fa diventare determinanti per decisioni e comportamenti. Anche davanti alla moglie, l’amatissima Franziska, nei 20 minuti di colloquio concesso in carcere, a Berlino, ricorda che ciò che li attende è il Cielo e “chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me ” (Mt. 8,37). 
   La testimonianza di Franz si fonda su un altissimo senso della dignità della persona, sul valore della coscienza, sull’importanza della responsabilità individuale anche di fronte alle scelte collettive.
     Franz viene ghigliottinato a Brandeburgo il 9 agosto 1943. La Chiesa cattolica lo ha proclamato beato il 26 ottobre 2007.

giovedì 8 agosto 2013

La banda del sogno (in)interrotto ...

A completamento delle 150 dedicate a Emanuele Feltri, una bella canzone dei Modena City Ramblers, dedicata ai siciliani che continuano a testimoniare una Sicilia onesta e pulita:
"La banda del sogno interrotto".
Canzone che mi piacerebbe ribattezzare "La banda del sogno ininterrotto"

martedì 6 agosto 2013

Forza, Emanuele …

Emanuele Feltri

Emanuele Feltri, 34 anni, dottore in Agraria, decide di fare una cosa inusuale anche in una regione a vocazione agricola come la Sicilia: coltivare ad agricoltura biologica i suoi 5 ettari di terreno nella valle del fiume Simeto, vicino Paternò, in contrada “Sciddicuni”. Purtroppo qualcuno non ha gradito la sua presenza in quella zona: circa un mese fa, al rientro da Catania, Emanuele trova le sue pecore uccise a fucilate, e la testa di una bestiola posta come macabro avvertimento vicino la porta di casa. Segno che c’è chi vuole che quelle contrade rimangano terra di nessuno, magari per fare traffici disonesti o discariche abusive, senza il controllo di sguardi esterni. Nonostante l’intimidazione, Emanuele ha deciso di restare in campagna per continuare a coltivare la terra. Possa Emanuele sentire la ola che fanno per lui tutti i siciliani che sognano una regione normale, onesta e civile. Degna di essere europea.                            
                                                                 Maria D’Asaro  (“Centonove”, n.30 del 02.08.2013)

venerdì 2 agosto 2013

Una bis-mamma speciale

Dei quattro nonni previsti, a Maruzza ne toccarono in sorte solo due.
Uno, il nonno paterno, morì prima che suo padre si sposasse. La madre di sua madre scomparve invece sette mesi prima che lei nascesse. E Maruzza ebbe sempre il sospetto che la prossimità che lei intratteneva con la Nera Signora fosse una conseguenza delle lacrime materne che lei aveva dovuto inghiottire col liquido amniotico.
Per fortuna nonno Turiddu, papà di mamma, il nonno migliore del mondo, le fu accanto per diciannove splendidi anni. E poi ci fu una nonna davvero speciale, la mamma di papà:  nonna mignon, che non arrivava al metro e quaranta di altezza e dagli occhi celesti come acquamarina.
Nonna Antonina
Poiché nel paesino sperduto dove viveva Maruzza non esistevano baby- sitter, visto che mamma lavorava alle Poste e papà faceva il sarto, nonna Antonina andava a casa della bimbetta quasi ogni giorno. Come tutte le nonne giulianesi di mezzo secolo fa, usava raccogliere i capelli in una crocchia di trecce annodate con varie forcine alla nuca. – Nonna, possiamo (s)pettinarti? – la tormentava Maruzza, seguita a ruota dalla sorellina. E, senza neppure aspettare risposta, le scioglieva i lunghi capelli d’argento, trasformati in cavie pazienti per i suoi bizzarri esperimenti estetici. – Nonna, guarda come ti stanno bene sciolti … no, anzi ti stanno meglio con due trecce … ora proviamo un’altra pettinatura … –  
E la nonna continuava a sorridere, cercando di sottrarsi alle ripetute richieste delle nipotine di rimirarsi allo specchio per ammirare le improvvisate acconciature. 
– Nonna, siamo in inverno: questo bambolotto non può resistere solo con maglietta e  mutandine: sente troppo freddo – sentenziava perentoria Maruzza. – Per favore, cuciamogli un vestito. –  Presi degli scampoli di stoffa marrone, la nonna si metteva immediatamente all’opera. Tagliava e cuciva  pantaloni e  giacchetta con la stessa meticolosità e attenzione che avrebbe avuto nel cucire un vestito per le nipotine. E con lo stesso amore. – Ti piace, Mariantonie’? Accussì ‘u pupiddu unni senti cchiu friddu” –  E la bimba guardava ammirata e contenta il pupetto vestito con un inappuntabile completino marrone.
– Nonna, facciamo la pioggia di neve? – Se aspettiamo un pochino, la neve cade davvero … – No, no facciamola noi la neve, subito, ora – insistevano Maruzza e la sorellina, saltellandole allegramente attorno.
La pioggia di neve consisteva nello sminuzzare centinaia e centinaia di pezzettini di carta e poi farli cadere giù, ad esempio salendo su una sedia. La destinataria della pioggia di neve era, neppure a dirlo, la capigliatura della nonna, che accondiscendeva sorridente  anche a questo gioco. 

Tra poco Maruzza sarebbe divenuta nonna anche lei. Ma qualcuno avrebbe esclamato, sicuramente a ragione: – Non ci sono più le nonne di una volta ... –