giovedì 28 aprile 2011

Diario di un alpino in Russia: Mai tardi

Voglio dirvi qualcosa dei libri che leggo. Magari un commento breve, senza pretese. Solo per il “prio” di comunicare il sapore che le pagine lette mi hanno lasciato in bocca.

Comincio con: Mai tardi, Diario di un alpino in Russia (Einaudi, 2001, Torino) di Nuto Revelli

E’ un libro avuto in prestito. Che ho letto anche per poterlo confrontare con “Il sergente della neve” di Mario Rigoni Stern. Si tratta della pubblicazione del diario di un ufficiale italiano, Nuto Revelli per l’appunto, inizialmente militarista e fascista convinto, che cambia idea sulla guerra e sull’adesione al fascismo proprio durante la terribile disfatta dell’esercito italiano in Russia, nell’inverno 1943.
A mio sommesso avviso, il libro non regge il confronto con il testo di Rigoni Stern, un capolavoro, al confronto. Ma ha, senz’altro, un altissimo valore di documento storico.
Ecco alcuni brani:

“Si direbbe un battaglione di orfani, abbandonati a se stessi, allo sbaraglio. Il comandante (…) è un povero vecchietto sciupato e rassegnato, sperduto in questo mondo che non è il suo. Seduto su una cassetta di munizioni, curvo, le braccia penzoloni, è il ritratto dell’uomo vinto. Ogni tanto gli dicono che un suo fante è morto, che un suo fante è ferito: allora si commuove, ma né la disperazione né la rabbia lo scuotono. (p.36)

“Mi svegliano alle 4. E’ appena chiaro. Esco per riconoscere il terreno della sparatoria, per recuperare la mia mantella. Vedo qualcosa di steso: di corsa raggiungo il morto. L’impressione è macabra. E’ supino, guarda il cielo. Lungo un fianco, il fucile. Sul ventre, a sinistra, un buco di dieci centimetri di diametro, e fuori un grosso fagotto, l’intestino e un sacchetto di cartilagine bianca: la bocca spalancata, i denti in fuori, gli occhi semiaperti. Le braccia lungo il corpo, le mani con le dita contratte. E’ un biondino sui diciott’anni. Una bomba a mano l’ha colpito in pieno”. (p.46)

“Dio che orrore! E’ il macello del 16 gennaio, Noi eravamo ancora in linea; qui, i carri armati russi schiacciavano una colonna in marcia. Ungheresi, tedeschi, italiani, una poltiglia di carne ossa, vestiti. Non basta farsi forza; gli occhi restano larghi, sbarrati, raccolgono, si riempiono” (136)

“I tedeschi predominano, la fanno da padroni; le loro urla sono sigle disumane, dure, metalliche… sentii di non poter più combattere con i tedeschi, ma di poter combattere contro i tedeschi. Era un sentimento intimo, di cui quasi mi vergognavo (…)” 138

“La neve si fa sabbiosa, pesante. E’ la neve peggiore, quella che stanca di più. Procedo a denti stretti, sbando dalla stanchezza (…) Vado avanti per forza d’inerzia, a gambe larghe per non cadere; i piedi avvolti nei malloppi di coperte sono incollati alla neve ed il busto pende in avanti. Rivivo episodi dell’infanzia, lontanissimi, dimenticati, rivedo i miei, la mia Annetta. (…) Sto congelando. Rivedo le gambe dei congelati, dei miei alpini feriti che viaggiano in slitta: da principio hanno il colore rosa, il colore delle bambole di cellulosa, poi diventano sempre più scure fino alla cancrena. Devo camminare. Con sforzo sovrumano, devo camminare se non voglio perdere le gambe. “(p.159)

Ecco, a mio parere, il difetto letterario del testo: troppo esplicito, troppo manifesto, troppo urlato, troppo retorico. Nella scrittura, dice il mio maestro Raimond Carver, si procede per sottrazione. Per ellissi, Per allusioni. Non si deve dire tutto. Come invece fa, quasi sempre, il buon Benvenuto Revelli. Ad esempio nell’ultimo stralcio, ripreso dalle pagine finali del testo:

“Ormai abbiamo dato tutto di noi stessi, i migliori sono morti combattendo, molti li abbiamo abbandonati nel freddo a 40°, per salvare il salvabile. Teoria bestiale, quella di salvare il salvabile (…) Poi, tenteremo di dimenticare per sempre tutto, tutto, tutto, fuorché una cosa: di odiare i tedeschi. Basta con la Russia: poveri alpini, quanti morti! Quel tragico mattino del 26 gennaio eravate macchie ferme sulla neve gelata dai 40 sotto zero, e non andavate più avanti perché eravate fermi per sempre, morti, punti fermi disposti a scacchiera come in formazione spiegata, una formazione di attacco statica, che all’attacco non poteva più andare. Vi abbandonammo insepolti. E gli slittoni dei porci tedeschi e le colonne in fuga vi martoriarono. (…) Poveri morti alpini!” (p.191/192)

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