sabato 29 gennaio 2011

Nostra Signora del Sacro Futuro



















Donna di Neandhertal: neanche a parlarne. Odiava la carne. Quella cruda, poi, che impressione…Troppo freddo in quella caverna. E che scomode, quelle ispide pelli. E poi non poteva fare una doccia, e nemmeno il bidet tiepido, ogni mattina..

Nella Grecia antica? Ci aveva pensato. Ma Socrate aveva la sua Santippe. E, poi, lo sappiamo, i bei ragazzi erano molto più gettonati… E sarebbe stato veramente difficile, viaggiare un po’ comodi, duemilaquattrocentocinquantannifa.
L’Impero romano, non l’aveva mai veramente attizzata: troppi soldati, troppi pater familias, che case scomode, se non eri patrizia… Che brutti poi, gli spettacoli che davano allora: cristiani sbranati, gladiatori che gareggiavano per trucidare se stessi, centinaia di schiavi crocifissi con Spartaco. Di cui si era innamorata, un pochino. Oltre a Gesù Cristo dai lunghi capelli. Crocifisso anche lui, neppure a parlarne.
La vita della castellana, nel Medioevo, aveva un suo fascino. Ma se invece nasceva plebea, e il signorotto, che era brutto e non si lavava, esercitava il suo ius primae noctis sopra di lei?
Certo, poteva essere una casta monaca benedettina. Ora et labora, questo si, le piaceva. Coltivare le sue belle piantine, nell’orto odoroso di quel gran monastero. Ma voleva almeno il telefono. E poi non era sicura che le avrebbero insegnato a leggere, in quel gran monastero.
Il Rinascimento, in Italia: una gran bella stagione. Ma era meglio vivere in Veneto o a Roma, per poetare ed amare con qualche licenza, come Gaspara Stampa. Che comunque scriveva e usciva da sola perché era una gran cortigiana, agli occhi del mondo di allora.
Nel Settecento dei Lumi, che ganzo scrivere con Denis Diderot il capitolo di un nuovo sapere. Ma se invece lei era analfabeta, cosa assai più usuale, la filanda, le sarebbe toccata. E magari morire di parto, al settimo figlio.
L’Ottocento era già un poco meglio: ma solo se ricca, francese o inglese. Dio ne scampi se era un po’ scura, nel Texas lontano o nelle profondità dell’Africa nera...

Nel Novecento, il secolo breve, ci sono vissute le sue due nonnine. Che vita di stenti, la prima, dieci figli, senza pillola né elettricità. Alla seconda, dagli occhi cerulei, era andata un po’ meglio: ma viveva praticamente da sola, perché l’amato marito era impiegato in campagne lontane e tornava una volta, forse due, ogni mese.

Non le rimaneva che l'oggi. Dove si muoveva abbastanza sicura. Specie negli ultimi anni, da quando si era connessa. Ogni tanto, però guardava le sue giovani alunne. Quelle nate da tredici anni. Avrebbe voluto essere una loro sorella. Continuava a pensare che il 1958 era stato un po’ presto, per nascere. E se non nel 1998, le dispiaceva non essere nata almeno all’inizio degli anni ‘70. Un gran cosa, oggi, dodici anni di meno….

Perché era il futuro, il suo tempo. Quello che lei voleva abitare.

venerdì 28 gennaio 2011

L'AMACA


Si leggono corsivi irridenti, e puntuti elzeviri, sull´incoerenza degli attuali "moralisti di sinistra" che però da ragazzi, nei Sessanta e Settanta, predicavano il libero amore. L´argomento è di impressionante debolezza, e sconfina nella malafede ove si ometta di dire che il "libero amore", nella sua ingenuità panica, era gratuito. Nonché sottratto - almeno nei suoi presupposti teorici - alle varie Morali, tra le quali la vecchia morale di classe (se sei povera, ama il ricco) oggi molto in auge tra le inquiline dell´Olgettina.

L´amore nel tempo della Restaurazione (questo) non fa specie perché sia scostumato o plurimo o perverso (perversa, eccome, era anche la monogamia imposta per legge). Fa specie perché è rassegnato a una lettura economica che sì, è sempre esistita, ma non era mai stata così dichiarata, ostentata, coltivata. E monocratica. E´ dunque un amore assai poco innamorato, come tristi intercettazioni documentano al di là di ogni ragionevole dubbio. Poiché le vie dell´eros sono infinite, è possibile e perfino lecito che protagonisti e protagoniste di questa vicenda considerino eccitante che sia il denaro l´unico vero dominus delle proprie mosse, sessuali e no. Ma non è lecito, questo no, tirare in ballo il "libero amore": è solo uno sporco modo per irridere alla sua sconfitta, e alla sconfitta della rivoluzione.
M. Serra (La Repubblica, 28..1.2011)

giovedì 27 gennaio 2011

A MALA ZIMETBAUM E EDEK GALINSKI, in ricordo del loro Venerdì Santo




Oggi, come ben ricorda l'amico Dr.Peter nel suo blog:




celebriamo la giornata della memoria.
La memoria della Shoah. Non è escluso che, nella storia, ci siano state "sospensioni dell'umano" altrettanto estese, efferate e assurde. Ma questa è una delle più recenti. Gli occhi limpidi di Anna Frank, stroncati a Bergen-Belsen il 31.3.1945, ci interpellano ancora.

Propongo il ricordo di una coppia coraggiosissima: Mala Zimetbaum e Edek Galinski. Pare si amassero, pure. (Sono grata a Primo Levi che, nel suo magistrale "I sommersi e i salvati", me li ha presentati)

Le evasioni erano estremamente rare ad Auschwitz, ma non sconosciute.
Il caso più famoso fu quello di Mala Zimetbaum e del suo amico polacco, Edek Galinski. Pare che i due fossero addirittura innamorati. Lei era una Lauferin, o fattorina, al campo, in grado di muoversi per fare delle commissioni e portare messaggi. Entrambi erano stati membri della resistenza anti-nazista, lui in Polonia, lei in Belgio. Lui ottenne un'uniforme delle SS, lei "organizzò" un lasciapassare, e lasciarono il campo insieme sotto le spoglie di una SS che trasportava un prigioniero.
Molti sopravvissuti di Auschwitz li ricordano, poiché ispirarono un'enorme speranza in tutti, ma i racconti divergono sui dettagli della distanza che riuscirono a percorrere prima di essere arrestati e riportati al campo. Alcuni sopravvissuti ricordano che essi arrivarono fino a Cracovia. Tornati ad Auschwitz, furono entrambi torturati e poi portati al patibolo per la pubblica esecuzione. Mala si tagliò le vene dei polsi con una lametta da barba che era riuscita a nascondere, fu picchiata a morte e caricata sul carro per il crematorio senza essere impiccata.
Dall'altra parte del campo, Edek s'infilò il cappio e calciò la panca prima che la sentenza di morte fosse letta; le SS lo salvarono e lo impiccarono nuovamente. Ci furono seicento altri casi di evasioni da Auschwitz. Quasi quattrocento fuggiaschi furono nuovamente catturati. Quando ci si accorgeva di un'evasione, tutti i prigionieri del campo erano fatti stare sugli attenti per ore, mentre si cercava il fuggitivo al di fuori del campo; una volta catturato, l'evaso era torturato, poi fatto sfilare per il campo con un cartello che diceva "evviva, sono tornato" e poi impiccato di fronte al resto dei prigionieri.
Per ogni fuggiasco che non veniva ripreso le SS procedevano a feroci decimazioni dei loro compagni. In occasione di una di queste fughe, padre Massimiliano Kolbe, un sacerdote polacco, si offrì spontaneamente di sostituire un compagno condannato a morire di fame nel famigerato Bunker n. 11.
Infine, forse la più celebre poesia di Primo Levi, che oggi leggeremo a scuola:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo e' un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un si' o per un no.
Considerate se questa e' una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piu' forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.

Meditate che questo e' stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

10 gennaio 1946

mercoledì 26 gennaio 2011

PRONTO SOCCORSO (3): Se le domande le fanno gli alunni…


L’anno dopo, mi fu affidato un altro quartetto di alunni da salvare.
Sempre terza media: due ragazzi e due ragazze. Due, erano fratello e sorella, con un paio di bocciature a testa, dovute anche a una lunga sequela di trasferimenti alle elementari - non si capiva bene perchè - in mezza dozzina di scuole diverse. Lui, che chiamerò Francesco, aveva già sedici anni e mezzo; lei, Anna, quindici anni. Gli altri, un bel biondino di 14 anni, dagli occhi languidi e dal fare indolente, che chiamerò Marco, e una ragazza mora di sedici anni, ben piantata su se stessa, Concetta.

Mi accorgo subito della difficoltà del salvataggio. I ragazzi, scolasticamente, sono in uno stato comatoso: insufficienze in quasi tutte le materie. Le ragazze pareva avessero antenne solo per potenziali fidanzatini e per nuovi colori di smalto per unghia; i ragazzi erano persi dietro i loro ormoni e i loro incerti e informi pensieri.
Mi accordo con i colleghi per un intervento pluridisciplinare: un po’ di scienze (leve, vulcani, terremoti), un po’ di storia (il Risorgimento, la politica di Giolitti, la I guerra mondiale), un po’ di Geografia (caratteristiche degli USA, del Giappone, della Cina…).
Dico subito che per le due ragazzine fu un insuccesso. Troppo distratte da altro; poco incisiva la psicopedagogista, forse. Di fatto, nessuna delle due fu ammessa agli esami. Anna fu promossa comunque l’anno successivo. Concetta fu iscritta d’ufficio a un corso serale.
Ce l’hanno fatta, invece, Francesco e Marco. Ognuno con un suo percorso. Che racconterò singolarmente.


Comincio da Marco. Che c’era e non c’era. Seguiva l’attività didattica a intermittenza: non perché disturbasse o chiacchierasse. Semplicemente era un po’ su un altro pianeta: sguardo dolce e svagato, perso forse dietro la forma precisa di una ragazzina…
Attenzione intermittente, è vero, però lo sguardo c’è. Un giorno studiamo le leve: primo, secondo, terzo tipo; braccio-resistenza, fulcro, braccio-potenza. Preparo uno schema. Marco si propone di trascriverlo al computer… Quindi una passione ce l’ha. La volta successiva dimentica il file. Due volte dopo, porta uno schema perfetto corredato di immagini.
E’ la volta della storia: destra e sinistra, dopo l’unità di Italia. Provo a spiegare il significato di quelle parole, a fine ‘800. Marco, come al solito, sembra distratto. Quando sta per suonare la campana, butta lì, con la sua aria svagata, una domanda da niente: “Professoressa, mi spiega qual è oggi la differenza tra un partito di destra e uno di sinistra?”
C’era, Salvo. Altro che.
Forse il problema è che noi insegnanti, a volte, parliamo troppo. Tentiamo di riversare di corsa, con ruolini di marcia forzati, tutto il nostro sapere, le pagine scritte, agli alunni. Dovremmo invece dilatare i tempi, dare spazio al silenzio, agli occhi svagati.
In un libro strepitoso che, a mio avviso, ogni insegnante o psicopedagogista dovrebbe leggere una volta all’anno, Paolo Perticari distingue, riprendendo Heinz von Foerster, fra domande illegittime e domande legittime: le prime sono quelle di cui si sa già la risposta, quelle domande che il sistema scuola e il sistema universitario sono così abituate a fare
[1]; le seconde sono quelle la cui risposta è tutt’altro che scontata, ma comporta un’assunzione di responsabilità, un rischio di sforzo, una ricerca di qualcosa…

Ho tentato di dare una risposta, provvisoria, circostanziata, il meno possibile viziata da passione personale, alla domanda di Salvo.
Che, inutile dirlo, continuò a fare domande. E a chiedere della politica di oggi. A chiedere, ad esempio, cosa facevano per i poveri, i politici di destra. E quelli di sinistra.
Salvo che, inutile confermarlo, fu ammesso agli esami.

Non abita lontano da casa mia. Ogni tanto lo vedo. Continua ad avere gli stessi occhi. Un po’ svagati e sensuali. Spero anche che continui a fare, e a farsi, tante domande.


[1] Paolo Perticari Attesi imprevisti Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pag.25

QUEI CUSCINI SPARITI DAL FORO ITALICO


Un editoriale pubblicato oggi, sulle pagine palermitane di "Repubblica", dall'amico Francesco Palazzo.
Avrei voluto scriverlo io, questo pezzo. Così lo inserisco nel mio blog!


La misura della decadenza di una città passa dalla conta delle piccole cose.
Il fatto è che c´erano cinquantasei cuscini e ora ce ne sono soltanto ventitré. Dove, vi starete chiedendo. Se ve lo domandate vuol dire che non andate quasi mai sul prato del Foro Italico. Oppure ci andate spesso. Però ormai, da palermitani pur sensibili alle cose belle della città, vi siete abituati alle piccole cose che spariscono. Alla città che sta scomparendo lentamente con esse. Perché quei bei cuscini blu, luccicanti, di una tonalità davvero azzeccata, di ceramica e non di gommapiuma, erano all´inizio messi proprio sulle panchine, piastrellate e allegramente colorate, poste proprio a due passi dal mare.

Quello che purtroppo dal centro città possiamo solo guardare, facendo con la manina ciao ciao ai turisti che con le grosse navi da crociera arrivano e partono. I cuscini non sono spariti tutti insieme in una notte. A uno a uno sono stati strappati a forza dalla loro sede. Al loro posto è rimasto il cemento con il quale erano stati fissati. E sino a quando erano i primi a scomparire, i palermitani, che sovente lì passeggiano, corrono, portano cuccioli animali e cuccioli umani, compulsano quotidiani e libri, potevano fare anche finta di non vedere. Ma da un certo momento in poi sarà stato impossibile non accorgersene.

Il Comune di Palermo però non se n´è accorto lo stesso. La struttura che è addetta al controllo del prato avrebbe dovuto comunicarlo, non appena spariva il primo cuscino, all´ufficio addetto, che doveva subito preoccuparsi di rimpiazzare il pezzo mancante. Ma non è successo. Ora, neanche i ventitré cuscini blu rimasti, dei cinquantasei originari, stanno in salute. Sono quasi tutti con scritte varie, e lo smalto brillante che li ricopriva è un lontano ricordo. Sia chiaro, sulla contabilità non ci impicchiamo. Può essere che, mentre scriviamo, ne sia sparito ancora qualcuno. I trentatré cuscini potrebbero già essere trentaquattro o trentacinque. I restanti andrebbero dunque protetti, prima che la conta precipiti, come una specie in via d´estinzione. Tutte le cose belle rimaste a Palermo, dopo dieci anni di deserto politico e amministrativo, si dovrebbero catalogare e adottare. Prima che una alla volta, come i cuscini del Foro Italico, ci vengano sottratte alla vista senza che ce ne accorgiamo.

E ai palermitani viene facile non rendersi conto delle sottrazioni di vivibilità che patiscono, e contribuiscono a creare con il silenzio o la partecipazione attiva, giorno dopo giorno. I cuscini del Foro Italico sottratti, in fondo, sono come la politica che piano piano ha abbandonato questa città. Centrodestra e centrosinistra, tra loro e al loro interno, si interrogano e litigano, restando però immobili e catatonici, su come iniziare una nuova stagione nel capoluogo. Ma questo è un altro discorso.

Francesco Palazzo

(LA REPUBBLICA -PALERMO - 26/1/ 2011)

martedì 25 gennaio 2011

Nostra Signora di ogni Riciclo

    Riciclava l’acqua con cui lavava le verdure, per annaffiare le sue mille piantine. Conservava i veli dei confetti: per ricavarne una trapunta trasparente, che avvolgesse i suoi sogni. Forse nel 3011. Riciclava l’acqua di scarico della lavatrice, per mondare il cesso dalla puzza di pipì.

    Raccoglieva, affamata, le briciole di attenzione che le cadevano ai piedi. Beveva l’ultimo sorso del succo di ananas che la figlia lasciava. Riciclava le formule fisiche del figlio scienziato. E i banner urlati del cucciolo scout.

   Riutilizzava i vestiti della cognata. I pantaloni attillati dell’amica collega. E i pull e gli slip che la figlia non voleva più usare. I fogli di carta scritti a metà. Le vecchie preghiere che faceva sua madre. L’amore per gli altri lasciato dal padre. Le erbe e il miele di sua sorella. Riciclava il pane raffermo, trasformandolo in croccante polvere bruna. Riciclava i fili di antiche matasse. Raccoglieva le penne trovate per terra, all’uscita di scuola. E le bottiglie di vetro e la carta, nella strada di casa.

   Riciclava un bel post dei blogger amici. E le belle parole imparate nei libri di scuola. E le tante poesie amate e ascoltate. Riciclava lo yoghurt scaduto. Le canzoni degli anni ’70. I vecchi cassetti, che restituiva alla vita, dipinti di verde.
Una cosa non voleva più riciclare: quel senso di vuoto mortale che l’aveva trafitta. Le paludi ammorbanti di un’antica tristezza.

   Che aveva di suo, si chiedeva ogni tanto. Le mani, sempre mobili e attive, Dio solo sa quanto. Le mani che, a volte, lenivano qualche ferita. Nei calzini, sicuro. A volte in un cuore. E tracciavano, incerte, carezze nel vuoto. Aveva i suoi libri. Il computer. A volte nuovi pensieri. E persino una riserva segreta di vulcanelli, emananti una leggera follia.
   Che ci metteva di suo, nella vita. Forse solo il suo sguardo, i suoi occhi. Che sorridevano. Ancora.

Le altre donne

Condivido, parola parola, quest'articolo di Concita De Gregorio.

Avrei voluto scriverlo io!

Esistono anche altre donne.

"Esiste San Suu Kyi, che dice: «Un’esistenza significativa va al di là della mera gratificazione di necessità materiali. Non tutto si può comprare col denaro, non tutti sono disposti ad essere comprati. Quando penso a un paese più ricco non penso alla ricchezza in denaro, penso alle minori sofferenze per le persone, al rispetto delle leggi, alla sicurezza di ciascuno, all’istruzione incoraggiata e capace di ampliare gli orizzonti. Questo è il sollievo di un popolo».
Osservo le ragazze che entrano ed escono dalla Questura, in questi giorni: portano borse firmate grandi come valige, scarpe di Manolo Blanick, occhiali giganti che costano quanto un appartamento in affitto. È per avere questo che passano le notti travestite da infermiere a fingere di fare iniezioni e farsele fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua virilità. E’ perché pensano che avere fortuna sia questo: una valigia di Luis Vuitton al braccio e un autista come Lele Mora. Lo pensano perché questo hanno visto e sentito, questo propone l’esempio al potere, la sua tv e le sue leader, le politiche fatte eleggere per le loro doti di maitresse, le starlette televisive che diventano titolari di ministeri.
Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. E’ l’assenza di istruzione, di cultura, di consapevolezza, di dignità. L’assenza di un’alternativa altrettanto convincente. E’ questo il danno prodotto dal quindicennio che abbiamo attraversato, è questo il delitto politico compiuto: il vuoto, il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, infine l’Italia ridotta a un bordello.
Sono sicura, so con certezza che la maggior parte delle donne italiane non è in fila per il bunga bunga. Sono certa che la prostituzione consapevole come forma di emancipazione dal bisogno e persino come strumento di accesso ai desideri effimeri sia la scelta, se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una minima minoranza. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo. Sono due anni che lo faccio, ma oggi è il momento di rispondere forte: dove siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie di un tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di possibilità uguale e libero, dove siete? Davvero pensate di poter alzare le spalle, di poter dire non mi riguarda? Il grande interrogativo che grava sull’Italia, oggi, non è cosa faccia Silvio B. e perché.

La vera domanda è perché gli italiani e le italiane gli consentano di rappresentarli. Il problema non è lui, siete voi. Quel che il mondo ci domanda è: perché lo votate? Non può essere un’inchiesta della magistratura a decretare la fine del berlusconismo, dobbiamo essere noi. E non può essere la censura dei suoi vizi senili a condannarlo, né l’accertamento dei reati che ha commesso: dei reati lasciate che si occupi la magistratura, i vizi lasciate che restino miserie private.
Quel che non possiamo, che non potete consentire è che questo delirio senile di impotenza declinato da un uomo che ha i soldi – e come li ha fatti, a danno di chi, non ve lo domandate mai? - per pagare e per comprare cose e persone, prestazioni e silenzi, isole e leggi, deputati e puttane portate a domicilio come pizze continui ad essere il primo fra gli italiani, il modello, l’esempio, la guida, il padrone.
Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano – al di là dei reati, oltre i vizi – un potere decadente fatto di una corte bolsa e ottuagenaria di lacchè che lucrano alle spalle del despota malato. Lo sgomento sono i padri, i fratelli che rispondono, alla domanda è sua figlia, sua sorella la fidanzata del presidente: «Magari». Un popolo di mantenuti, che manda le sue donne a fare sesso con un vecchio perché portino i soldi a casa, magari li portassero. Siete questo, tutti? Non penso, non credo che la maggioranza lo sia. Allora, però, è il momento di dirlo."

Concita De Gregorio


Canzone per l'estate ...

Una delle canzoni più tristi di Fabrizio De Andrè.
Che fotografa in modo struggente una crisi. Di coppia. Personale. Al maschile, al femminile.
Auguro di cuore a tutte/i, altre canzoni, per le prossimi estati.





lunedì 24 gennaio 2011

LUCCICHIO




Luccichìo,
all’orizzonte:
mari da solcare…
nuove isole da esplorare…
Domani.

USA LA TESTA, NON LA CALCOLATRICE!



Il venerdì vado in edicola per acquistare “Centonove” e un quotidiano nazionale. Qualche venerdì fa, chiedo anche un biglietto per l’autobus, porgendo una banconota da cinque euro. “Quanto devo darle? - mi chiede l’edicolante trentenne. Poiché il biglietto costa 1 euro e 30, gli dico che mi deve 70 centesimi. L’edicolante, per niente convinto, mi guarda quasi con sospetto e dice: “Ora controlliamo”. Cerca una calcolatrice e mi dà il resto solo quando sulla macchinetta appare il risultato dell’operazione. Siamo proprio messi male: so bene, purtroppo, che, come ci dicono le prove che l’Invalsi (Istituto Nazionale di Valutazione) propone a tappeto agli studenti italiani, i ragazzi del Sud si collocano agli ultimi posti in Matematica e in Italiano. In effetti, non so se è possibile essere cittadini consapevoli e stare, con gli altri, in Europa se abbiamo bisogno di una protesi per sapere quanto fa 1,50 + 1,50 + 1,30…

Maria D’Asaro

(pubblicato su “Centonove” il 21-1-2011)

sabato 22 gennaio 2011

L'AMACA



(Ciò che sottolinea Michele Serra, a mio avviso, è una verità semplice, pura. Che, purtroppo, si rischia di smarrire. Smarrendo anche noi stessi.)

E' una sensazione strana. è come se si dovessero capire daccapo, spiegare daccapo, cose che parevano assodate, condivise, perfino ovvie. Che, per esempio, prostituirsi per fare carriera è una cosa che accade, ma non è una cosa nobile, e non fa parte della libertà: fa parte delle antiche servitù dei poveri ("Le disgraziate si son vendute – per una cena, per un grembial", Canto degli sfruttati, fine Ottocento). Che doversi inchinare ai potenti capita, ma vantarsene con le amiche, e addirittura con i genitori, non è usanza, tra le umane e gli umani. Che un padre o una madre che incitano la figlia a sgomitare per raggiungere prima delle altre il letto del padrone non sono un buon padre e una buona madre, in nessuna epoca, a nessuna latitudine.
Che l´amore gratuito ha più valore, più bellezza e infinitamente più potenza dell´amore a pagamento. Che esiste una differenza sostanziale, e percepibile anche dai semplici e dagli incolti, tra i gesti dignitosi e i gesti umilianti. Che il maschio anziano che compra la ragazza giovane merita pietà, ma mai ammirazione. Ecco, di queste e altre cose, nel paese Italia, in questo scorcio di tempo, sembra perduta ogni certezza. Non lo dico con rabbia o sconforto. Ne prendo atto, questo sì. E dunque: ripetiamo daccapo, tutti insieme, a partire dal rigo due: prostituirsi per fare carriera (eccetera eccetera).
M. Serra (Le Repubblica, 21.1.2011)

venerdì 21 gennaio 2011

AD ORA INCERTA - APPRODO


Nell'approssimarsi del 27 gennaio, giornata della memoria di tutte le vittime della Shoah,

due splendide liriche di Primo Levi, che amo perdutamente.

Amo sia le liriche (la prima, poesia della disperazione assoluta, la seconda, poesia della quiete, ma non della speranza) sia Primo Levi.

A Primo Levi ho dedicato, post mortem, una lettera che è anche un mio manifesto di vita:



A tutti i maggiorenni consiglio la lettura di almeno uno dei suoi libri.


AD ORA INCERTA

[Da Primo Levi, Ad ora incerta (ma e' anche l'epigrafe che apre La tregua), ora in Idem, Opere,

Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 526]


Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finche' suonava breve sommesso
Il comando dell'alba:
"Wstawac":
E si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre e' sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E' tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
"Wstawac".

11 gennaio 1946


APPRODO
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 542]

Felice l'uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro se' mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all'osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l'uomo come una fiamma spenta,
Felice l'uomo come sabbia d'estuario,
Che ha deposto il carico e si e' tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme ne' spera ne' aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.

10 settembre 1964

mercoledì 19 gennaio 2011

Questo è un uomo: Marek Edelman

Il 27 gennaio, anniversario dell’entrata dei soldati russi ad Auschwitz, celebriamo la giornata della memoria. La memoria di quella 'sospensione dell’umano' che è stata, a mio avviso, la Shoah.
In questi giorni, voglio onorare la memoria di uomini e donne che hanno fatto qualcosa, contro questa indicibile e assurda barbarie.
[Dal sito del Comitato per la foresta dei Giusti (www.gariwo.it)

"Marek Edelman (1919-2009) nasce nel 1919 a Homel, nell'attuale Bielorussia, da una famiglia di ebrei. Giovanissimo, si iscrive al Bund, il partito socialista ebraico di Russia, Lituania e Polonia, e diventa un noto attivista politico. Vicecomandante della rivolta del Ghetto di Varsavia nel 1943, si distingue per coraggio e determinazione nella battaglia impari contro le truppe naziste dopo quattro mesi di assedio e di strenua resistenza degli ebrei rinchiusi nel ghetto. Riesce a sfuggire alla retata delle SS passando attraverso le fognature nella parte ariana della citta' insieme ai pochi sopravvissuti delle squadre di combattimento. Di quell'esperienza ricorda: 'Ero giovane, avevo un mitra in pugno, difendevo il ghetto dalle SS. O noi o loro, non c'era tempo per i sentimenti. C'era solo la certezza che contro una dittatura si puo' sempre e solo lottare. Io penso sempre che quando la vittima e' oppressa bisogna stare dalla sua parte. Bisogna darle riparo, nasconderla, senza paura e sempre opponendosi a coloro che vogliono schiacciarla'.
Un anno dopo, nell'agosto del 1944, partecipa con i suoi uomini all'insurrezione di Varsavia. Dopo la guerra si laurea in medicina e diventa un noto cardiologo. Si riconosce in un socialismo dal volto umano, distante dalle logiche staliniste, e sogna un'Europa democratica in cui regni la fratellanza dei popoli. Dopo essere stato braccato dai nazisti per le sue origini, viene perseguitato dai comunisti sia perche' ebreo che per i suoi ideali. Nel 1968, nel quadro dell'odiosa campagna "antisionista" del partito guidato da Gomulka, Edelman perde il posto di lavoro in ospedale.
Negli anni Settanta la sua autonomia e liberta' di pensiero lo spingono a partecipare all'attivita' di Solidarnosc, scelta che nel 1981, con l'introduzione della "legge marziale" del generale Jaruzelski, gli costera' l'arresto insieme a molti altri leader del movimento. Nel 1989, alla caduta del regime, viene eletto deputato alla Dieta, il Parlamento nazionale, e resta in carica fino al 1993. Durante l'assedio serbo, negli Anni Novanta, si schiera al fianco della popolazione di Sarajevo.
Si e' spento a Varsavia il 2 ottobre 2009.

ASSENTI


Assenti,
al capolinea,
rimpianti e rimorsi.
Solo carezze d’amore.

Infinite.

lunedì 17 gennaio 2011

L'AMACA


Immaginate una cena con venti ragazze e tre uomini anziani. Secondo la breve sintesi di Giuseppe D´Avanzo, basata sulle testimonianze rese ai magistrati: "Parla sempre il presidente. Racconta barzellette, canta. Tutti sono chiamati soltanto a ridere e a cantare in coro". Ecco, per quanto mi riguarda non c´è orgia o baccanale o prostituzione minorile che possa fare ombra, quanto a squallore e imbarazzo, a questa scena. Mi rendo conto che prevarranno, come è normale che sia, gli aspetti giudiziari. Ma basterebbe, in un paese sano di mente, quella sola scenetta – un vecchio miliardario che infligge a venti ragazze prese in affitto la sua vanità – a seppellirlo nel ridicolo per l´eternità. Lui e i suoi commensali.

No, non è sano di mente, questo paese. Mi dispiace per tutte le pazienti e perfino sagaci spiegazioni che ci hanno ammannito, per vent´anni, osservatori più giudiziosi, più neutrali, più intelligenti di noi. Che quelli come noi hanno la puzza sotto il naso. Che lui piace proprio perché è così. Che incarna il sogno di milioni di italiani. Faccio altri sogni. Alcuni, magari, anche peggiori, più dolorosi e neri. Ma così deprimenti, davvero mai. Se milioni di italiani sognano di vivere come lui, vuol dire che milioni di italiani sono depressi.

M. Serra (La Repubblica, 16.1.2011)

sabato 15 gennaio 2011

Dedicato a zia Pina

che se ne è andata, oggi.
Ero accanto a lei, assieme a sua sorella, quando qualcosa volò via. Per dove non sapremo mai, mai, mai.

Grazie di tutto, zietta.
Che tu possa stare bene, nell'altrove dove ormai sei.

L'AMACA


Difficile vedere uno spaccato della politica italiana più eloquente di quello andato in onda nell´ultimo "Ballarò". Da un lato un vecchio servitore dello Stato, nonché giurista di alto profilo, Stefano Rodotà, che cercava di illustrare nel dettaglio la questione del legittimo impedimento, all´esame della Consulta. Dall´altro due giovani leader del centrodestra, Gelmini e Cota, insofferenti nei confronti di un puntiglio intellettuale non alla loro portata e soprattutto inconciliabile con la loro esigenza di semplificare, e ridurre ogni questione alla proficua banalità "con Berlusconi-contro Berlusconi", ovvero, si capisce, "con la gente-contro la gente".


In particolare Gelmini (che è ministro dell´istruzione, vedete un po´...) pareva strutturalmente incapace di affrontare un´analisi anche sommaria dei fatti, e cioè del motivo stesso del contendere; e continuava ad accusare di "antiberlusconismo" un Rodotà sempre più spossato, e incredulo di vedersi sgretolare davanti agli occhi non già le sue opinioni, quanto il campo stesso del dibattito. Rodotà incarna, agli occhi della nuova leva del potere italiano, piccolo-borghese e di destra, quanto di più detestabile: perché è un signore, perché è un intellettuale, perché è di sinistra. Nel vederlo soccombere (sia pure con infinita dignità), e soccombendo insieme a lui, ci siamo resi conto di quanto la sconfitta della cultura sia anche la sconfitta della realtà. E viceversa.

(Michele Serra, La Repubblica, 14.1.2011)

FERMATA MULTIETNICA


Alla fermata dell’autobus, vicino alla Stazione Centrale, tra le quindici persone che aspettano pazientemente, noi bianchi indigeni siamo appena quattro: gli altri sono extracomunitari. Tra essi una madre – i tratti somatici suggeriscono un’origine etiope o eritrea - che si prodiga, con tanta pazienza e con rara, delicata attenzione, verso la figlia di circa sei anni e il bimbetto molto più piccolo: perché non soffrano per l’attesa del tram. Parla con loro in buon italiano, gioca, canticchia. I suoi sandali rattoppati, il passeggino logoro, i vestitini alla buona della figlia testimoniano una povertà dignitosa.

Gli altri “stranieri” attendono in silenzio, col sacchetto della spesa. Mi chiedo come potrà, la madre coraggio, acquistare un paio di sandali nuovi e favorire un’integrazione reale ai due splendidi bimbi. Forse gli esponenti politici dovrebbero prendere il tram e guardare i volti delle persone. E se proprio disdegnano gli autobus, aspettare almeno un po’ alla fermata…
Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” il 14-1-2011)

giovedì 13 gennaio 2011

ALBA


Alba
D’inverno:
Doni speranza indomita,
Uccellino che, lietamente, cinguetti.
Solo.

mercoledì 12 gennaio 2011

PRONTO SOCCORSO (2): Grazie, Rigoberta, grazie Ungaretti


Non tutte le mie rudimentali operazioni di “Pronto Soccorso” salvano i “pazienti”.

Tre anni fa, mi furono affidate tre ragazzine. Terza media, capelli e unghia curatissime, trucco abbondante già alla prima ora. Diagnosi: - Una così così, due, buone capacità. In classe non fanno niente tutte e tre. Totale lagnusia. - Ci provo: sintesi di lezioni di storia, qualche testo di antologia. Con me lavoricchiano. Dopo quattro incontri, la collega di Lettere mi dice che in classe continuano a guardarsi allo specchio, a fare le oche giulive. Ci levo mano. Le tre ragazze saranno bocciate. L’anno successivo, due mettono giudizio e ce la fanno serenamente. La terza si iscrive a un corso serale.


Ancora prima, invece, fu operato un salvataggio da coma profondo che ancora mi emoziona, nel ripensarci.
Una collega con la quale c’è un feeling particolare, a fine aprile viene a trovarmi e mi dice: “Maria, ho quattro alunni persi: vanno male in inglese e zoppicano parecchio in matematica. Se non raggiungeranno la sufficienza in Italiano e Storia, tutti e quattro ripeteranno l’anno. C’è R. che non spiccica una parola e I.: tutti dicono che ormai è malacarne, frequenta brutti ceffi… Ci puoi provare tu?”


Il giorno dopo i quattro sono nella mia stanzetta. Sono tre ragazzi e una ragazzina con enormi occhi azzurri. La ragazza la conosco benissimo: sorella di un brunetto dai tanti riccioli neri e dagli occhi di carbone ardenti, ragazzo che avevo miseramente perduto qualche anno prima. Due ragazzini sono piuttosto scialbi. Confesso di non ricordare più nemmeno i loro nomi. Il quarto è il malacarne: un paio di begli occhi nocciola, mobilissimi e svegli.


Inizio subito, senza troppi preamboli. - Che state studiando, di Storia e Italiano? – Risponde uno dei due ragazzi anonimi: - Una cosa di Roberta Menchù e delle poesie di Ungaretti. Di Storia, la I guerra mondiale. – O.k.: sapete chi è Rigoberta - perché si chiama Rigoberta, non Roberta - Menchù? – Idee vaghe e generiche. - Prendiamo il libro dico che leggeremo assieme un pezzetto della sua biografia. Mi rivolgo alla ragazza: - Puoi iniziare, R., per favore? – Arrossisce, fa di no con la testa. Interviene l’altro anonimo: - Ma se in classe non dice mai una parola… - Appunto – ribatto – può iniziare qui, a leggerla, qualche parola. – Mi rivolgo di nuovo a R. con estrema, dolce fermezza: - Per favore, inizia a leggere… Nessuno si permetterà di prenderti in giro. – R. legge: tono bassissimo, lettura abbastanza fluida. La storia di Rigoberta, la lotta durissima per affermare i suoi diritti di donna, di indigena guatemalteca, la sua storia di dolore e di riscatto, riesce un pochino a far breccia. Soprattutto in R., dagli-occhi-colore-del-mare-profondo.


Si riprende, due giorni dopo. Questa volta parliamo di storia: il primo conflitto mondiale. Interventisti e neutralisti, sangue, massacri e trincee. Malacarne occhi-che-brillano vuole provocare e si lascia andare a un’affermazione sarcastica: lui, per soldi, farebbe la guerra dovunque e comunque. Degli anonimi, uno annuisce e lo spalleggia sorridendo. L’altro sta zitto. Ovviamente non mi scandalizzo affatto: rigiro pacatamente la faccenda, parlando - senza paroloni, per carità - di un sistema politico ed economico che, spesso, impedisce di scegliere. Magari se uno potesse guadagnare facendo un bel mestiere, non gli verrebbe di fare il mercenario… Occhi-che-brillano mi guarda, mi dice che già suo fratello è in Bosnia (ha messo firma per due anni), ora forse lo manderanno in Iraq. Soggiunge: - Guadagna bene, ma gli manca la zita e gli manchiamo noi…


La volta successiva attacchiamo con la poesia.

Leggiamo “San Martino del Carso”: Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro./Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto./Ma nel cuore/nessuna croce manca./È il mio cuore/il paese più straziato.
Poi, “Fratelli”: Di che reggimento siete,/fratelli?/Parola tremante/nella notte/Foglia appena nata/ Nell'aria spasimante/involontaria rivolta/dell'uomo presente alla sua/fragilità/Fratelli.
E, ancora, “Soldati”: Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie.

Non so dire bene cosa sia successo, dopo. Il fatto è che io adoro Ungaretti.

Devo aver detto ai ragazzi che queste poesie lui le scriveva mentre i compagni gli morivano accanto. Un’intera nottata/buttata vicino/a un compagno/massacrato… Sono sinceramente contro la guerra, inutile strage, come l’ha definita qualcuno ben più autorevole di me. Con la sua bocca/digrignata/volta al plenilunio… Quando ho brevemente spiegato le poesie, facendo loro capire e gustare similitudini, metafore e la misura traboccante di quell’immenso dolore esistenziale: Con la congestione/delle sue mani/penetrata/nel mio silenzio… devo avere trovato il tono giusto.

La mia vocazione antimilitarista da figlia del 1968 ( Dylan con “Blowing in the wind”, e i Giganti con “Mettete dei fiori nei vostri cannoni” sono state importanti colonne sonore della mia adolescenza) si è unita alla passione, per diletto e per mestiere, alla poesia: ho scritto lettere piene d’amore ...
Ho notato un lampo in Malacarne occhi-che-brillano. Mi ha detto: - Domani gliele posso ripetere queste poesie in classe, alla professoressa…- Certo, le stiamo studiando anche per questo. –


I ragazzi sono stati ammessi agli esami, tutti e quattro.
La collega di Lettere mi ha riferito che Malacarne occhi-che-brillano ha fatto un orale strepitoso: ha letto e interpretato le poesie di Ungaretti con una foga e una passione inimmaginabili, ricevendo le lodi della commissione. Occhi-di-mare ha parlato, piano e bene, di Rigoberta Menchù.
Grazie, Rigoberta, grazie Ungaretti. Anche a nome dei miei quattro ragazzi salvati.
Non sono mai stato tanto attaccato alla vita.




lunedì 10 gennaio 2011

Purezza di cuore e amare è una cosa sola


(Dalla rivista CEM Mondialità, novembre 2010: un gioiellino, a mio avviso, per gli insegnanti e non solo.

Purezza di cuore e amare è una cosa sola.

(la pagina di Rubem Alves, psicoterapeuta brasiliano)


«C’era una volta un uomo il cui cuore e i cui occhi erano affascinati dai gioielli. Quanto sono meravigliosi a motivo dei loro diversi colori! Quale mistero è la loro provenienza! I rubini rossi, gli smeraldi verdi, le ametiste gialle… In ogni gioiello brilla la luce dell’eternità.
Ogni volta che poteva comprava un nuovo gioiello in modo da aumentare la sua collezione. Eppure non si sentiva felice. Era come se nessuno di essi fosse grande tanto quanto il suo desiderio. Ed allora il nostro uomo si sentiva quasi costretto a comprarne di più, sempre di più… finché un giorno… ci fu un giorno in cui incontrò un gioiello mai visto prima.
Tutti i gioielli che aveva erano stati estratti dalla terra e raccontavano i misteri della terra. Ma quel gioiello, una perla, parlava dei misteri del mare. E, guardandola, si sentiva trasportato alla sua infanzia, sulla sponda del mare, figlio qual’era di pescatori, sulla spiaggia, ascoltando la voce del mare.
Quella perla lo portò indietro al luogo dove era nato. Ed egli si sentiva pieno di una felicità che i suoi gioielli meravigliosi non gli avevano mai dato. Però quella perla era molto, ma molto cara. Allora l’uomo se ne andò, vendette tutti i gioielli della sua collezione e comprò quella perla, l’unica. E il suo cuore finalmente riposò…».
Allora un uomo gli chiese: «Spiegaci questa parabola».
Il Signore delle Storie disse: «Voi dovete sapere di quegli uomini che dicono di amare molte, molte donne. Essi nella loro vita stanno sempre cercando molte ragazze e amanti e di fatto ne incontrano molte senza mai incontrare l’allegria. Quello che essi provano è solo piacere. Ma, all’improvviso, per ragioni inspiegabili, uno di essi incontra una donna che gli fa dimenticare tutte le sue fidanzate ed amanti. In lei il suo cuore sperimenta l’allegria. La sua ricerca è arrivata alla fine. Così è la vita.
Chi è alla ricerca incessante di molti oggetti d’amore è perché non ha ancora incontrato l’amore…».
(
Io la pens-av-o così: forse è perchè sono vetero-romantica. E donna. Il romanzo, per me scudisciata in pieno viso, "La separazione del maschio" di Francesco Piccolo, presenta, ad esempio, un punto di vista molto diverso. )

domenica 9 gennaio 2011

LA GENTILEZZA E' UN DISTILLATO


LUISA MURARO: LA GENTILEZZA E' UN DISTILLATO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (http://www.libreriadelledonne.it/) il seguente articolo originariamente apparso su "Metro" del 12 novembre 2010]

L'autrice del blog sottoscrive completamente le riflessioni di Luisa Muraro.

Per chi vuole coltivare in se' e intorno a se' la gentilezza, questi sono tempi eroici.

A formare una persona gentile contribuiscono il suo temperamento, l'educazione ricevuta e la cultura circostante: nella nostra societa' non mancano persone spontaneamente inclini alla gentilezza cosi' come non manca l'educazione di base nelle famiglie e nelle scuole, ma e' franata la cultura sociale. Le nemiche della gentilezza, villania e volgarita', trionfano sulla scena sociale. Non e' colpa di nessuno, le cose sono andate cosi'. Tutti invocano un po' di gentilezza, pochi la offrono. D'altra parla, non si puo' comprarla (quella che si compra e' finta). Si riceve in regalo e si ricambia. Si puo' anche cercare di produrla in proprio e offrirla a chi non la conosce.

E' contagiosa, ma meno delle sue nemiche. Come posso insegnare la gentilezza ai miei alunni, mi ha chiesto una prof. Come si insegna un'arte marziale, le ho risposto: le mosse giuste, il senso della misura, la nobilta' d'animo; alle alunne, insegna a non imitare i villani e a coltivare la differenza femminile insieme alla forza: nessuno si permetta di crederle deboli perche' gentili, tutto al contrario.
Confesso che, personalmente, non sono sempre gentile con le persone che conosco: con queste esprimo a volte la violenza congenita che ho dentro, fidando nel nostro rapporto. In compenso, sono gentile con le persone sconosciute in cui ci si imbatte nel caotico mondo di oggi. Dicono che per essere gentili ci vorrebbe del tempo e noi non ne abbiamo, io mi sono specializzata in una gentilezza mordi e fuggi: un sorriso e uno sguardo d'intesa, a chi? A un essere umano. Quello che propongo non e' certo un buon esempio, ma un'idea: concediamo alle nostre vite e alle nostre citta' il lusso di essere ogni tanto gentili per la pura gioia di esserlo
.

venerdì 7 gennaio 2011

LA MACCHINA ROSA


Eravamo nell’ultimo decennio del secolo scorso. Falcone, Borsellino e don Puglisi erano stati ammazzati da poco. Palermo stentava a rialzarsi da quelle orrende ferite.
Accompagnavo all’asilo mio figlio Riccardo. Che non era proprio entusiasta di andarci. Avrebbe preferito di molto stare con la sua mamma e i suoi dinosauri.
Però, se nel tragitto da casa alla scuola, vedeva la “macchina rosa”, era più contento. Infatti allora, nel mio quartiere, era spesso parcheggiata una strana macchina rosa.
Perché ne scrivo, direte: perché penso che tutti, ogni tanto, vorremmo una macchina rosa, al nostro passaggio. Un comportamento inusuale, uno scatto d’ingegno, una soluzione creativa, un sorriso nascosto. Qualcosa di bello e di strano che interrompa il grigio tran-tran. E ci dica che forse non è tutto scontato. Che la vita – la nostra e quella della città – può avere un senso e un colore. Rosa, arancione, azzurro, chissà.
Nel cuore, i colori dell’arcobaleno.

Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” il 7-1-2011)

giovedì 6 gennaio 2011

La Befana and me











C’era una volta, in un paese distante,
una piccina che avea pensieri da grande.
E sulla testa, con fiocchi giocondi,
una… cascatella di riccioli biondi.

Poi di una donna lei prese forma,
e il suo nasino, ahimè, cambiò forma:
o il DNA o la caduta di ieri
e lei somigliò a Dante Alighieri.

Qualcuno irrideva, birbante, il suo naso,
e lei di lacrime riempiva un gran vaso.
“Streghetta, strega – la compagna diceva.
Ma questa non era la realtà più vera.

Se lei non era la più bellina,
nel cuore sentiva d’esser un poco fatina.
E sperava, con ogni sua forza,
nell’armonia tra il… succo e la scorza.

Adesso ha vent’anni e in banca lavora.
Guadagna un pochino, alla buon’ora.
Paga un dottore, che la guarisce:
il bel nasino le restituisce!

Al suo profilo, nessuno fa caso.
E son già nozze d’argento, col nuovo naso.
Potrebbe persino far la Befana,
perché passata è ormai la buriana.

Come la Poppins, lei si sente… perfetta:
e qualcuno la chiama persino…maghetta!
Narrata ho la storia, in rima baciata,
di una donna che un poco bimbetta è tornata.

martedì 4 gennaio 2011

Nuovi Mestieri per una decrescita felice



Nostra signora è 'fissata' con l’ecologia e la decrescita. Perché penso che è da pazzi sostenere un sistema economico che postula la crescita infinita, in un pianeta dove le risorse sono finite. Non possiamo continuare a campare producendo oggetti, oggetti e oggetti. Troppa roba vi seppellirà, profetizzava Michele Serra.
E’ meglio cercare nuovi mestieri, creativi e immateriali.

Ad esempio:

     Si facciano dei corsi per addestrare specialisti nella cura di città malate. Di periferie disastrate. Di tombini allagati di pioggia. Specialisti che capiscono a volo perché un quartiere è così triste: e ci sappiano disegnare un parco giochi, una pista da ballo, piantare degli alberi, togliere le vecchie carcasse dei divani e dei frigoriferi.
Le facoltà di Economia lavorino per fondare la banca della tenerezza. Con una riserva forzosa di dolcezza e un caveau pieno di compassione.

     In ogni luogo sia istituita la Guardia terrestre dei nostri fratelli alberi: per ogni albero, un uomo/donna custode. Che li salvi da mani assassine. Specie in estate. Quando si assumeranno uomini/donne custodi anche part-time. In ogni tempo, ci sia chi consoli i salici piangenti e abbracci i platani nudi e tristi che rabbrividiscono al freddo dell’inverno.

Qualcuno ripari, con speciale perizia, gli ombrelli. Che non vengano gettati dopo il primo utilizzo. Ma che servano ancora. E ancora, e poi ancora. Anche dopo la pioggia più scrosciante e il vento più dispettoso.
Maestri speciali che insegnino a tutti come poetare. E dicano cos’è una similitudine, una metafora e persino un’anafora. E mostrino rime alternate, incrociate, baciate. E bacino, alla fine, se è il caso, persino un’alunna. Purché maggiorenne.


    Puttane che lavorino solo part-time e facciano corsi speciali alle mogli/amanti/compagne perché siano un pochino più calde e più brave. Mogli/madri/sorelle/compagne che insegnino alle puttane a fare le torte e a curare le rose; se è il caso, a fare persino le madri, le mogli, le ricamatrici e le infermiere. Perché le puttane, specie colore dell’ebano, possano scegliere domani che cosa gli piace fare di più.
Raccoglitori di bucce di pere, di scarti di cavolfiore, di scorze d’anguria: perché tutto quello che ci ha dato la terra, alla terra sia restituito e non vada in una orrenda discarica.
Ronde che aiutino i gatti e i cani di strada. Che spieghino loro, con rara pazienza, cos’è e come funziona un preservativo. Perché, se non casti, siano almeno procreatori responsabili e non si debba soffrire per l’eccesso di vita felina o canina che muore senza adozione.

    E poi, qualcuno che si specializzi nel consolare. Coloro che hanno perso qualcosa. Specie se una persona. Magari la moglie, il marito, un figlio, un fratello. Li vada a trovare ogni giorno. Almeno due ore. Accarezzi le mani. Ravvivi le piante. Scaldi, d’inverno, una calda tisana e prepari un the freddo d’estate. Attacchi un bottone.
    Ci siano i lavatori di vetro. Che tutte le nostre bottiglie abbiano una vita piena e infinita.
Ci siano eserciti di rifacitori di case: che vengano tutte dipinte, con i colori dell’arcobaleno. E manovali valenti che le coibentino perché consumino un terzo del gasolio che bruciano oggi.
Le autorità competenti indìcano pubblici concorsi per diventare suonatori di strada. Una strada, una fisarmonica. O una chitarra o un violino.

   Sia data regolare patente ai persuasori occulti, capaci di trasformare gli speculatori finanziari in appassionati di biglie di vetro. O in raccoglitori di conchiglie rosate da regalare alle amate compagne. O in valenti giocatori di scopone. O, almeno, in Banditori del Mercante in Fiera.
     Si insegni agli alunni a spegnere le luci superflue. E gli alunni siano maestri, per questo, ai genitori e a tutti i negozianti.
Si facciano bandi per assumere uomini e donne infuocate che accendano belle passioni.
   Ci siano dietologi specializzati che insegnino agli abitanti del Nord a saltare un pasto ogni giorno, per essere più snelli e più sani. E aiutino gli abitanti del Sud a mangiare almeno una volta, ogni giorno, per essere meno snelli e più sani.

     In ogni quartiere, un Pronto soccorso per le anime in pena, pagato dall’ASP.
    Un’Accademia superiore per Corpi di pace che insegnino la tolleranza e la nonviolenza. Scienziati che inventino estintori speciali per raffreddare i bollenti spiriti e spegnere l’odio.
     Grafici specializzati nel tracciare linee colorate nell’anima dei loro clienti.

Chissà, se qualcuno di questi mestieri, non esista, di già….

domenica 2 gennaio 2011

sabato 1 gennaio 2011

101 Storie: Pronto Soccorso... Ciuffo ribelle


Care amiche/cari amici: come primo post del 2011 la storia di un ragazzino sperduto, che poi la terza media l'ha presa. Una storia semplice, legata al mio lavoro.

Con l'augurio rinnovato che questo 2011 sia sereno e fecondo per tutti. Che tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, possiamo partorire affetti, sorrisi, sguardi creativi, colpi d'ala. Che tutti possiamo volare alto. Perchè è solo volando alto che riusciamo a dare la giusta dimensione alle cose.


Capita spesso, dopo i Consigli di Classe di Aprile, che io debba aprire una sorta di “Pronto Soccorso”.
Mi spiego meglio: ad Aprile le famiglie ricevono la penultima pagellina: dai voti, ovviamente, si capisce quali ragazzi rischiano di perdere l’anno. A questo punto, per me e per i colleghi, il tentativo di salvare quelli che “ce la possono fare” diventa quasi frenetico. Specie se si tratta di alunni ripetenti, specie se il ragazzino o la ragazzina è in terza ed è a un passo dal conseguimento della licenza media. Allora intensifico i colloqui con i ragazzi, pratico loro delle iniezioni di buona volontà, chiamo i genitori, almeno quelli che i figli tentano di seguirli un pochino, e chiedo loro di mettercela tutta per stare dietro ai loro ragazzi.
Infine, mi accordo con qualche docente, specie di Lettere, Matematica e Scienze o Inglese, per fare un “rap” di quelle che noi chiamiamo lezioni individualizzate, con didattica breve. Che, tradotto dallo scuolese, vuol dire radunare nella mia stanzetta, per cinque/sei volte, tre o quattro ragazzini traballanti e snocciolare, sinteticamente, le tristi dinamiche della seconda guerra mondiale, o a fargli capire e gustare l’Infinito di Leopardi, fargli spiccicare due parole, in English, of course!, sulla Royal Family o sul Commonwealth o, ancora, spiegare perché ci sono i terremoti.

    L’anno scorso, la collega di Lettere di una terza, mi confermò che nella sua classe i casi disperati erano tre: il primo, un ragazzone svagato, amato e accudito dalla famiglia, ma che proprio, per usare le sue parole, “di scuola non ne voleva”. A. venne alla prima lezione di recupero. Se stava attento, capiva alla grande. Pensò bene però di assentarsi l’ultimo mese dell’anno. Bocciato. L’altro era un tenebroso ragazzo di vetro, la cui storia narrerò, prima o poi. Anche lui fu tra i sommersi. Il terzo era G.

    Silenzioso, svogliato, svuotato. La sua storia, la conoscevo. Qualche anno prima, a scuola c’era la sorellina: come lui caffelatte, con capelli nerissimi e lisci e inconfondibili sembianze andine. Due ragazzi adottati. Venuti in Italia a sette, otto anni.. La sorellina maggiore, più adattabile e conquistata dal suono delle poesie – aveva recitato meravigliosamente alcune liriche, in prima media - ce l’aveva fatta ogni anno. Lui aveva sempre arrancato. Finché in terza media, l’anno prima, era stato bocciato.
    Ora, avevo davanti un ragazzo con spalle larghe e un po’ curve e gli occhi neri, grandissimi, coperti da un ciuffo copioso e ribelle. Intuisco che il problema, forse l’unico, è scoprire e parlare a quegli occhi.
Alla seconda lezione siamo in due. A. è assente. Il ragazzo di vetro torna in classe un po’ prima e io parlo a G. Anzi è lui che sussurra: “Non ce la faccio, professoressa, vero…” – Se qualcuno avesse deciso che non ce la puoi fare, non saresti qui a lavorare con me … Vedo che segui, che ti sforzi di essere attento… Da un sacco di tempo faccio questo lavoro: credo di capire le possibilità dei ragazzi di farcela. Io so che ce la puoi fare... Che vuoi fare dopo la terza media?-
    G. mi dice che adora cucinare. Che vorrebbe fare il cuoco o comunque occuparsi di alberghi e ristorazione. – Ottimo – concludo col più caldo dei miei sorrisi – E lui, con una voce sommessa e tremante: - Ma allora, lei dice che c’è qualche possibilità?- Certamente – gli dico guardandolo dritto negli occhi e accarezzandolo a lungo, con lo sguardo. – Raccoglie le sue cose, e se ne va, con l’accenno, ma solo l’accenno di un sorriso.

   Terza lezione: questa volta sono solo lui e A., che segue distrattamente qualcosa. Dobbiamo capire la politica coloniale degli stati europei a fine ‘800. Snocciolo il significato di colonialismo, poi del neocolonialismo post seconda guerra mondiale. Leggiamo la poesia di un senegalese. G. non perde una sillaba delle mie spiegazioni. Qualche giorno dopo chiedo alla collega di ascoltarlo in classe: infatti, il mio lavoro è solo di appoggio. La valutazione finale resta al collega docente. La collega, qualche giorno dopo, viene a trovarmi. Mi dice: - Quasi quasi non lo riconoscevo: G. è stato dignitosissimo. Gli ho messo sette. –

   Non mi illudo. So che una rondine non fa primavera. G. continua a venire al “Pronto Soccorso”: lo invito a studiare anche le altre materie. Riparlo con la preziosa collega di Lettere. Mi dice: - Mari, hai tanto da fare: dedicati ad altri ragazzi. Con G. è fatta. Ce la farà. Ormai studia sempre.-

   Voi non sapete che cosa vuol dire per una psicopedagogista ascoltare una frase così. Perché a volte la psicopedagogista si sente in colpa. Pensa tra sé e sé: - I miei colleghi si sgolano in classe, e io… servo a qualcosa? –
   Poi, quando il "Pronto soccorso", o qualche altra cosina, funziona, si sente contenta. E pensa che, alla fine, il fatto che lei si guadagni da vivere cercando con la sua lanternina qualche ragazzino sperduto, magari un senso ce l’ha.