martedì 30 novembre 2010

Buon compleanno!



due anni fa, una domenica piovosa del 2008, nasceva il mio blogghino. Il mio primo post: in Palermo in 150 parole.


Mi chiedo se la distrazione e l’incuria che alcuni palermitani mostrano per piante e alberi non derivi anche dall’ignoranza per i loro nomi. “Disegna un albero" - ci viene richiesto da bambini – e non “Disegna un platano, un ulivo, una sterculia”…Pochi sanno che gli alberi hanno un nome e un cognome, proprio come uomini e donne. Appartengono a una famiglia (da cui traggono il cognome) - quella dei Pini, delle Mimose, degli Olmi, delle Betulle… - all’interno della quale hanno una loro specificità (ecco il nome): sig. Pino Cembro, sig. Pino Nero, sig.a Albizia Julibrissin Mimosa, sig. Acero Campestre, sig. Acero Palmato, sig.a Acacia Dealbata Mimosa, …Non abbiamo forse uno sguardo, un riguardo diverso verso chi conosciamo per nome? Forse, quando li conosceremo e li chiameremo per nome, cominceremo a considerare gli alberi Cosa nostra. O, a scanso di equivoci, nostri fratelli minori. O maggiori, viste le dimensioni.

Perchè un blog? Perchè amo scrivere. Perchè amo comunicare. Perchè, come dice Guccini in Cirano:



quando sento il peso di essere sempre sola, mi chiudo in casa e scrivo, e scrivendo mi consolo.


Grazie di cuore a tutte/i per la Vostra attenzione affettuosa.

I DOMENICA DI AVVENTO


(So di essere una donna fortunata. Anche perchè, da più di vent'anni, ho la fortuna di ascoltare e frequentare un prete speciale, don Cosimo Scordato. Ecco la sua omelia di domenica scorsa:)

Stiamo entrando nella I domenica di Avvento. Il tempo dell’Avvento ci fa subito pensare con gioia al Natale del Signore. Lo vorrei legare tutto questo a un termine che il Vangelo ci consegna. “State svegli, state pronti”: sapete come si dice in greco? Farà piacere a Gregorio: si dice Gregoreo. Il verbo gregoreo in greco significa stare sveglio, stare desto. Siamo invitati a destarci dal sonno. Credo che sia un appello di grande rilevanza, care sorelle e fratelli, perché tendiamo ad assopirci, ci abituiamo troppo facilmente a tutto quello che avviene. E soprattutto pensiamo a un certo momento che, quasi quasi, non ci sia più nulla da fare, perché i fatti ci sopraffanno, ci sentiamo impari. E scadiamo in un atteggiamento quasi naturalistico, come se la storia fosse ormai scandita da fatti naturali, inevitabili. E’ naturale che avvengano le cose…
Mentre c’è una differenza fondamentale tra futuro e avvento. La parola futuro deriva dal greco fusis, che significa natura. Futuro è quindi tutto quello che si può prevedere: quando sorge il sole, se deve piovere, etc. Nella previsione degli eventi naturali, per grazia di Dio, conosciamo sempre più cose. La storia invece non ha a che fare col futuro – se non per certi aspetti, direi, banali – la storia ha a che fare con l’avvento: qualcosa che non possiamo prevedere e a cui dobbiamo puntare perché non è ripetizione del passato, non deve essere ripetizione del passato: ci apriamo verso una possibilità sempre nuova che è affidata alla nostra libertà, alla nostra responsabilità, da un lato, e alla promessa di Dio.
Ecco perché durante l’Avvento leggeremo continuamente i testi più belli dei profeti. I profeti che ci rinnovano questa promessa di Dio, che ci vogliono svegli, che non ci vogliono fare addormentare, ci vogliono invece aprire a un sogno, che è il sogno di Dio nei confronti della nostra umanità: che è quella di pensare a un’umanità diversa da quella che è.
Ecco perché ricominciamo di nuovo da capo, con l’Avvento. E’ inevitabile, questo: perché non siamo contenti del mondo, così come è. E allora cominciamo di nuovo a farci chiamare dal Signore, attraverso l’appello dei profeti: un mondo di pace, un mondo dove dimenticheremo le arti della guerra, le arti marziali…
Incominciamo a pensare, a immaginare una realtà che è poi quella che noi desideriamo, dove siamo invitati a costruirci di pace, dove rifiutiamo di farci riassorbire dal passato, che tende a risucchiarci, come se non avessimo più niente di nuovo da fare e dovessimo assistere impotenti di fronte a tutto ciò che avviene… no: l’avvento è appello alla libertà dell’uomo ed è promessa di Dio.
La nostra libertà è la cosa più bella che abbiamo o che siamo. Non può rinunziare a se stessa. Nonostante tutto quello che è avvenuto. Nonostante tutto quello che continua ad avvenire. La nostra libertà si trova di fronte a questa promessa di Dio: e questa promessa di Dio ci rende corresponsabili, tra noi e Dio. Perché Dio non rinunzia a interpellarci: fa appello alla nostra libertà. E non vuole portare a compimento la sua promessa senza di noi.
Ma contemporaneamente ci dice che, nonostante tutto, nonostante le promesse disattese quotidianamente, noi continuiamo a credere nella promessa che è possibile oggi, un mondo di paradiso. Senza fuga in avanti a un dopo, che in ogni caso resta sempre sull’orizzonte, senza fughe in avanti, ma con l’appello a rispondere adesso a questa promessa.
Allora, per quel frammento che può dipendere da noi, come singoli e come comunità, essere pronti, svegli, vigilanti, in piedi, attenti, risorti, perché il verbo gregoreo è vicino a un altro termine egeiro che significa resurrezione, sono due termini molto belli .
Vigilanza è essere svegli. Mettersi in piedi, avere la schiena diritta, non soccombere, ma essere lucidi, pronti a fare la nostra parte. Non è un atteggiamento titanico, ma è un atteggiamento responsabile. Perché il mondo dipende da noi: non da forze impersonali a cui vogliamo demandare le cose, né da coloro che ci governano, che hanno la responsabilità di interpretare il sogno dell’umanità, ma dipende da tutti noi.
E Dio continua a rimetterci il mondo nelle mani, questa cosa grandiosa che tante volte ci trova impreparati, lo so. Ma non possiamo rinunziarci. E Dio ce lo promette un mondo autentico, ce lo continua a promettere: come possibilità che sia per davvero il regno della pace, dell’equità, della giustizia, della verità, della trasparenza, della partecipazione di tutti, della convivialità, di tutte le cose belle… il mondo di tutti i nostri sogni.
A cui non dobbiamo rinunziare. E non dobbiamo invece assopirci e farci assonnare dalle mille falsità dalle quali veniamo inebetiti, senza renderci più conto di quello che avviene.

lunedì 29 novembre 2010

Don Chisciotte

Dedicato a chi non si rassegna alla realtà così come è. A chi, a costo di apparire matto e visionario, vuole cambiarlo, questo mondo.
A mio figlio Riccardo che è andato alla manifestazione a Roma, contro i tagli all'Università.
Dovrei tirarmi indietro perchè il male e l'ingiustizia hanno un aspetto così tetro....


Vorrei

A mio avviso, una delle più belle canzoni d'amore di Guccini.




sabato 27 novembre 2010

101 STORIE: VOGLIO ANDARE A LIVORNO


Il problema di K. erano soprattutto le assenze.
Che ne hanno causato la bocciatura, in II media. E poi un altro insuccesso in terza, a un passo degli esami. Peraltro K. aveva buoni voti solo in Italiano: scriveva benissimo. Nelle altre materie, sempre scena muta
In seconda, avevo provato a inserirla in un laboratorio dal titolo impegnativo “Un altro mondo è possibile”. E’ venuta due volte, poi niente. Appena in tempo per dirmi che il suo sogno più grande era andare a Livorno. In terza è stata anche seguita da un’assistente sociale. Mi ha chiamato, un paio di volte. - Viene a scuola K.? - A volte si, spesso no. - Le chiedo un incontro. Mi dice di si. Ma, poi, non se ne è fatto più niente: - Troppi casi più urgenti – si scusa.
Intanto K. ha 15 anni: è ancora in obbligo scolastico. Ripete ancora la terza. Però, a scuola non viene. Non se ne sa niente. Il cellulare della madre è spento. Irraggiungibile. - Non vuole più venire – confida la compagna ben informata. Invio la solita segnalazione di mancata frequenza all’Ufficio Dispersione Scolastica del Comune di Palermo. Ma, lo so già, gli operatori del Comune e gli assistenti sociali non hanno la formula magica per ridarci i ragazzi. Ho scritto in un pizzino il numero della madre e ho telefonato per giorni. Sappiamo che il padre non c’è. Che i genitori sono separati, da qualche anno. Del padre, nessuna notizia.
Un giorno il telefono chiama: - Non posso farci niente, K. non vuole venire – risponde la madre con tono stanco e annoiato. – Signora, fissiamo un colloquio, la prego, solo un colloquio, con lei e la ragazza. –
Così, a metà ottobre, K. torna a scuola. Tento delicatamente di parlarle. Di capire il perché del suo rifiuto, ma ha una scorza coriacea. Forse non si fida. E io non riesco a trovare la chiave.
Un giorno intercetto uno sguardo diverso. Per la prima volta, parla di sé. Di una solitudine antica, dei continui litigi dei genitori: - Non c’erano i soldi per pagare l’affitto… avevamo cambiali… mio padre era tanto geloso – Sguardo triste, tono di voce bassissimo. Non vuole venire a scuola perché non si ritrova con le compagne: molto più grande, con pensieri e interessi diversi…
Poi, tre anni fa per l’appunto, il padre è partito. Lavora a Livorno. La madre e la sorella (c’è una sorella più grande) le fanno casino se sanno che lo ha sentito al telefono. – Puoi andare a Livorno da lui ? – Sorride. Mi dice che non è facile, in realtà neanche il padre la vuole. Perché lavora col camion e manca spesso da casa. Le rimane la nostalgia del suo amore perduto: - Di lui mi ricordo i suoi giochi, mi faceva sorridere… Con mia madre e mia sorella non parlo, loro sono vicine tra loro, io è come se non ci fossi… -
Dopo questo colloquio, mi regala abbozzi di sorrisi appena accennati. Parliamo, ogni tanto. Lei mi guarda, educata e composta. Ma senza speranza. Il suo sguardo rimane in un altrove lontano. - Che libri ti mancano? - Tanti - I libri si trovano. Una collega e i compagni si prodigano.

Ma a gennaio, la solita compagna informata dice all’insegnante di Lettere che K. è incinta.
La chiamo. E’ difficile per me questo colloquio. Questa cosa la dico a K.: - Tu capisci le cose. Ti confesso che a volte il mio lavoro è difficile. Ma è giusto parlarti: ho sentito in giro una voce … Perdona il mio essere esplicita… Si dice che sei incinta: è vero? Hai bisogno di aiuto? - Una lieve sfumatura rosata attraversa il suo volto olivastro, allungato. Non conferma né nega, ma chiede come lo abbia saputo. Le dico che non ha importanza. - Mi pare importante che tu non sia sola con il tuo segreto. - E’ vero …. - adesso sono io a sobbalzare, spero che non se ne accorga.
Riprende: - E’ vero …ho avuto un ritardo … ho avuto paura di essere incinta…. Ma era solo un ritardo. –
La guarda, inghiottendo veloce il mio vederla bambina, il mio puritanesimo del secolo scorso e una grande voglia di abbracciarla. Scelgo le parole con cura. – Devi avere avuto paura. Non saresti stata affatto contenta di essere incinta - Per niente – mi dice sollevata. Continuo: - Sarebbe stato duro essere incinta a 15 anni … Comunque, vivi con attenzione la tua sessualità. Se non vuoi parlarne con tua madre, potresti parlarne con la dottoressa del Consultorio, qui vicino, in via della…. Non sei sola…. -
Annuisce. Aggiungo che faccia attenzione al gruppo che sta frequentando. Che fare sesso è terribilmente impegnativo, specie a 15 anni. Tento di evitare le sirene opposte del moralismo e del farla troppo facile. Le scrivo su un foglio l’indirizzo del consultorio e gli orari. Argomento, per ora concluso. K. mi appare rilassata. Adesso sorride.
Riprendo il vestito di sempre. - Quale libro ti manca … ancora l’inglese. –
Grazie – mi dice alla fine. Mi pare che questa volta i suoi grandi occhi sorridano.

Mi dispiace, ma la storia di K. non ha un lieto fine. Ad aprile ricomincia la frequenza a singhiozzo. A maggio non viene più a scuola. Dalla madre, solo un secco: - Ve l’avevo detto che non voleva venire. – E un astio e un fastidio crescenti, a ogni telefonata. Dai servizi sociali il temuto silenzio.
A giugno, K. ha sedici anni. – Non potete obbligarla oramai – ripetono con toni diversi la madre e il servizio sociale. Riesco solo a strapparle un saluto. Ma solo per telefono. E la promessa che si sarebbe iscritta a un serale.
Poi su K. si è chiuso per sempre il sipario.

E’ la madre che vedo ogni tanto, per strada. Gli occhi fissi nel vuoto. Non mi guarda neppure. Veramente lei non guarda proprio nessuno. Cammina a lungo, nelle strade infelici del nostro quartiere. Come se ricercasse qualcosa. Forse un senso, un aiuto, un uomo, un calore nascosto.

O una polvere bianca, che qualcuno le passa, in silenzio.

Segni dei tempi

    Meriterebbe maggiore attenzione “De reditu”/Il ritorno, film di nicchia che racconta il punto di vista di Claudio Rutilio Namaziano, prefetto a Roma nel 412 a.C., vanamente impegnato a contrastare l’ineluttabile disfacimento dell’impero romano.
Con sguardo attento, Namaziano coglie i numerosi segnali della fine: la diffusione del culto cristiano, per lui irrazionale e incomprensibile, il sempre maggiore controllo del territorio da parte dei barbari, la chiusura di ciascuno verso il proprio “particulare”…
    Anno domini 2010: in un quartiere periferico di Palermo liti furibonde per un telefonino in offerta presso un nuovo mega-centro commerciale, dove ragazzi inebetiti bivaccano senza meta a tutte le ore. Affollati giorno e notte per il rito quotidiano del gratta-e-vinci i troppi punti Snai della città. Tutto questo mentre i capelli di tante concittadine si tingono di un rosso più acceso della lava dell’Etna.
Dicci, Claudio Rutilio: sono forse i segni premonitori della fine della nostra presunta civiltà?

Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” il 26-11-2010)


venerdì 26 novembre 2010

MULAN AND ME...

Che cosa è necessario inventarsi per far vedere che anche noi donne valiamo qualcosa!
Nel giorno contro la violenza sulle donne....

MARI … CORAGGIO


Di alcune cose, invece, non aveva affatto paura.
Dei topi, ad esempio. - Che carino! – aveva esclamato, in un tempo lontano, quando i grandi in famiglia davano la caccia a un topolino infiltrato in cucina. Nella grande casa, in paese.
Non aveva paura degli scarafaggi. Neanche di quelli marrone scuro, con le ali. Glissando su nonviolenza e dintorni, a volte li uccideva spietata, vicino al portone di casa.
Non aveva avuto paura di partorire tre figli.
Non aveva paura dei ladri. Né degli zingari. E neppure degli extracomunitari. Non temeva Methody, il bulgaro che chiedeva l’elemosina al semaforo. - Come stanno i tuoi figli? E tua moglie?- gli chiedeva talvolta.
Era l’esperta, in famiglia, nella caccia di vespe e di calabroni: che afferrava e riusciva a cacciare fuori dalla finestra, regalando loro di vivere. Fedele, questa volta, a Capitini ed a Gandhi.
Non aveva paura di essere in minoranza. A casa. A scuola. In città. Le bastava il sostegno di una sola persona, magari. Non aveva paura di vestire alla buona. Con i jeans e la maglietta. Anche se tutti avevano scarpe e borse firmate.
Non aveva paura di parlare: anche a trecento persone. Il cuore le batteva forte, è vero, ma questo lo sapeva lei sola. Non aveva paura di cambiare lavoro. Chi lo sa, tra un po’ ne avrebbe fatto un altro, ancora diverso. Non aveva paura di seguire i suoi sogni. Veramente ogni tanto mollava. Ma poi iniziava a sognare di nuovo.
Non aveva paura di leggere un libro sempre diverso.
Non aveva paura di scrivere. E infatti scriveva. Anche sciocchezze al quadrato. Senza paura di chiedere scusa, ai suoi sette lettori.

mercoledì 24 novembre 2010

NEL BLU DIPINTO DI BLU


Una signora con un manto marrone, che filava la lana, facendo rumore. Nella penombra notturna della stanza da letto dei suoi. Questa, una sue delle prime paure. Aveva, forse, tre anni.
Poi la paura del diavolo, che - diceva una zia - le sarebbe apparso senz’altro, se si ostinava a guardarsi nello specchio della sartoria di papà. Perché lei amava specchiarsi, nei lunghi pomeriggi da bimba, pieni di silenzio e di niente. Adorna di collane e rosari, cantava inni sacri e profani, con la camicia da notte di mamma e lo scialle di nonna; e in testa improvvisati diademi la trasformavano in una vera regina.
Per fortuna, per quanto sostasse temerariamente allo specchio, il diavolo non si fece vedere. A poco a poco, lei smise di averne paura.

Ma poi bussò all’anticamera dei pensieri una paura diversa. Che le apparisse la Madonna. O il Signore in persona. Forse perché la solita zia ne parlava sovente: la Madonna, già apparsa ai pastorelli in Cova d’Iria, poteva mostrarsi di nuovo. E se fosse stata lei la predestinata a così alto colloquio, rimuginava l’ormai alunna di quarta?
Passavano gli anni: lo spavento per le apparizioni cedette il posto a nuovi timori: che la Morte, con sembianze orrende di vecchia, la prendesse per mano. Solo nascosta nel lettone dei suoi, col respiro caldo e sereno di mamma, riusciva a trovare conforto.
Che vergogna, aveva già la maturità nel cassetto, quando contrasse la paura degli Ufo. Magari erano proprio vicini: magari, dopo che la Madonna aveva deciso di sorridere o piangere altrove, erano loro, adesso a volere parlare con lei…

Poi, furono messi da parte anche gli extraterrestri, e le paure divennero molto terrene. Che non riuscisse a studiare. Che il ragazzo dal nome strano non fosse la persona giusta per lei. Che la guerra da fredda divenisse bollente, con i missili a Comiso. Che a Palermo ammazzassero tutti gli onesti. E soprattutto che morisse sua madre.
Un giorno sua madre morì veramente. Nessun catenaccio aveva fermato la Falce. Già prima era morto suo padre. La morte, ormai l’ha conosciuta. E’ il vuoto assoluto, in un punto preciso del petto, quello che continua a temere di più.

Adesso convive con paure più spicciole. Che un giorno dimentichi tutte le belle parole che usa e abbia lo sguardo sperduto del signore del primo piano. Che i suoi figli sposino persone e cause sbagliate.
Che nessuno, magari per finta, le dica: - Ti amo –
E ha ancora il timore delle onde del mare. E di guardare giù, dal ventesimo piano.
Però ha aperto la porta alle sue mille paure: le accoglie, dice loro: buongiorno. Da personcina educata, offre loro da bere: una granita d’estate e una tisana d’inverno.
E, l’ultima volta, ha preso l’aereo e ha sorriso. Felice di volare vicina alle nuvole chiare.
Nel blu dipinto di blu.

martedì 23 novembre 2010

LE STELLE AND ME


No, non gli astri celesti, peraltro nascosti dalle nuvole gonfie di questo bizzoso Novembre. Ma le stelline di dolore che circondano il capo di Paperino quando prende una botta, in una delle sue tragicomiche disavventure.
Prima l’infiammazione al nervo sciatico. Roba con cui conviveva ogni inverno. Poi quella stupida ferita al mignolo del piede destro, che si era procurata non si sa bene come e perché. Così, non appena calzava anche solo una vecchia ciabatta, un nugolo di stelle ballava dispettoso intorno al suo piede.
“Non andare al lavoro, non avrai di certo una medaglia al valore – suggeriva la Maggiore.
Ma lei si vergognava: chiedere un certificato medico solo per un misero dito escoriato… Mentre qualche valorosa collega andava a scuola col il cancro e la chemio. E poi c’erano i bimbi sperduti che l’aspettavano…

Solo che, a piedi nudi, a scuola era impossibile andare. Così, non appena calzava gli stivaletti, il balletto di stelle riprendeva a danzare vorticosamente davanti ai suoi occhi… Con grande tristezza, per due giorni aveva sparso anche un po’ di CO2, costretta, com’era, ad andare al lavoro con l’automobile.
Perché racconta questa sciocchezza, qualcuno dirà.
Perché, ora che il dolore è quasi passato, lei ringrazia Dio (o il Cielo o il caso o la Natura o la buona sorte) perché ha un corpo sano che le consente di essere autonoma. Che la fa camminare, ridere, persino salire le scale. E ha due mani e due piedi. E venti dita: quasi perfette.

Non è poco, in questi tempi di crisi.

domenica 21 novembre 2010

Maki maku, Goran Bregovic

Dedicato a chi ama anche gli ottoni festosi e le sonorità scomposte di Goran Bregovic.


101 STORIE: IL MARE, DA SOLO, NON BASTA...


Funziona così: dopo i primi giorni di scuola, i colleghi mi segnalano gli alunni che non sanno leggere o scrivere, quelli che non vengono a scuola, quelli che non riescono a stare fermi, quelli che tormentano i compagni. Nella speranza che insieme - docenti, famiglia, Servizi Sociali e Asp[1] (se è il caso) troviamo un modo perché i ragazzi apprendano e le cose vadano meglio.
E’ stato così anche per F.. “Non sta fermo un minuto, non porta né quaderni né libri, non ascolta…puoi per favore convocare i genitori per capirci qualcosa? – mi dice la coordinatrice della classe. Leggo il nome del ragazzino e ho un tuffo al cuore: stesso nome e cognome del ragazzo con gli occhi azzurri che mi hanno ammazzato a Bagheria…
Chiamo papà e mamma di F.: si presentano tutti e due. E’ piccola e magra, con un viso scarno e allungato, occhi castani, mobilissimi e inqueti: somiglia tantissimo al figlio. Il padre è un bel ragazzo biondo, appena trentenne. Anche lui snello e minuto. Un fare a metà tra il rassegnato e l’annoiato. Ha splendidi occhi celesti. E uno sguardo disincantato: senza illusioni e senza pietà.
Parliamo di F: tutta colpa delle maestre, dice la madre. Ne ha cambiate tante alle elementari… Interviene il papà: - Lascia stare le maestre… Sono stato dentro due anni, il bambino, quando mi hanno portato via, aveva sette anni … lui mi cercava e piangeva. Tu e suoi nonni l’avete guastato - . La madre ribatte che non è vero, non è vero che l’hanno guastato… Il fatto è che, con suo marito arrestato, sono andati ad abitare dai genitori di lei: - Come facevo a pagare l’affitto e a mangiare? C’era F. e l’altro bambino, tre anni più piccolo… E’ normale che, con mio marito carcerato, F. sentiva a suo nonno…- Sposto l’attenzione sull’oggi, chiedo come va adesso, se abitano da soli. Mi rispondono che soldi non ce ne sono, quando può il papà di F. guadagna qualcosa andando a pescare e vendendo del pesce. - E quindi abitiamo ancora con i miei suoceri – conclude con una smorfia amara il papà.
Riporto ai colleghi il succo del colloquio con i genitori. Ci sbracciamo tutti, per aiutare il ragazzino. Incontro ancora i genitori. E’ raro che vengano insieme, però. La madre si vede di più: annuisce spesso, quando le parlo, ma non credo mi ascolti davvero.
Il padre, quando viene, sosta di più. A metà anno, un colloquio, solo io e lui. – La sua presenza è importante per F… - gli dico – C’è qualcosa che fate insieme? – Mi guarda, con occhi attenti – Ci sto poco a casa, devo vuscarmi il pane. E poi, uscendo fuori, levo occasioni di lite con i miei suoceri… - Annuisco, ma insisto: - Ma lei per suo figlio è importante …. – Mio figlio – abbassa il tono di voce – me l’ha levato il carcere prima e dopo mia moglie e i miei suoceri, l’amminsigghianu assai
[2] – Lei è il padre: può ancora ricostruire la relazione con suo figlio…C’è qualcosa che vi piace fare insieme? - Un sorriso appena accennato. – Io vado a pescare: poi cerco di vendere il pesce. Mio figlio vorrebbe venire con me. – Lo porti con sè, magari il sabato e la domenica.- Dice di sì, che lo farà. Qualche volta.
Mentre ci salutiamo gli dico che a Bagheria, a scuola serale, anni fa, avevo un alunno, che amava tanto la pesca e il mare, si chiamava come suo figlio… - Era mio fratello – mi dice asciutto e laconico – ha fatto una brutta fine…- Non aggiungiamo parole. Ci salutiamo con una stretta di mano e uno sguardo diretto. Il mio forse più triste del suo.
Gli sforzi per aiutare F. si sono quadruplicati. Gli procuriamo i libri. Perdoniamo quasi tutte le sue monellerie. Promozione d’obbligo in seconda media.
Ma in seconda comincia a venire tre giorni no e uno si. Chiedo spiegazioni: la madre mi risponde: - Ma mio figlio è uscito per andare a scuola.. – Quando la chiamiamo, è sempre di corsa, spesso prende in anticipo F. per chissà quali emergenze. Telefono sempre più spesso per chiedere ragione delle tantissime assenze: la signora sciorina un repertorio infinito di motivazioni: il piccolo ha la febbre, non è suonata la sveglia, siamo rientrati da un matrimonio, mia sorella si è separata, credevo che la scuola oggi non c’era…
Convochiamo l’Ufficio Dispersione Scolastica del Comune. Chiediamo l’attivazione del Servizio educativo domiciliare.
[3] Il servizio tarda ad avviarsi: l’assistente sociale mi spiega che il Comune ha ridotto i fondi per la spesa sociale. I genitori di F., in un primo momento disponibili a collaborare con tale servizio, si tirano indietro.
Dopo un ennesimo periodo di assenze, incontro ancora la madre. Mi dice che lei e il marito si sono separati. – I bambini rimangono con me, il padre, quando vuole, li può vedere… - Chiede il nulla osta per trasferire F. nella scuola più vicina alla loro casa. Chiedo se il padre è d’accordo. Mi dice di si. Lo chiamo, voglio sentirlo da lui: - Si – Ma perché, da noi il ragazzo è seguito…Che importa se deve fare duecento metri di più… - Mi dice che è meglio per F. che vada nella scuola vicina. Aggiunge che forse in quella scuola lo chiameranno di meno…
La collega della segreteria segue la prassi: prima che venga accettata la richiesta di trasferimento, ci si accerta che la scuola accolga effettivamente il ragazzo.
Non mi resta che augurare a F. buona fortuna.
Che la vita, non solo scolastica, possa ogni tanto sorridergli.



[1] ASP: Azienda sanitaria provinciale. La scuola si avvale della collaborazione con l’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile (che ha nel team psicopedagogista, neuropsichiatra e psicologo) competente per territorio
[2] Lo viziano troppo

[3] S.E.D. è la sigla del Servizio Educativo Domiciliare, attivato dal Servizio Sociale del Comune. Prevede e propone, per le famiglie in difficoltà, la presenza – in genere pomeridiana, due o tre volte la settimana – di un educatore che sta col minore: giocando con lui, aiutandolo magari a fare i compiti, uscendo anche insieme. Il SED si prefigge il recupero e il rinforzo della funzione genitoriale in caso di temporanea difficoltà nell’esercizio della stessa e il rinforzo delle competenze individuali e sociali del minore (quadro normativo L.285/97 art.4, L.328/2000 art.16, L.149/2001).

sabato 20 novembre 2010

INSULTI


“Crastu…‘a ghittari sangu ‘du cori”: questo l’augurio che un automobilista mi ha urlato, mentre mi sorpassava. Forse perché avevo rallentato troppo, sul ponte dell’Oreto, davanti a una pericolosa pozza d’acqua. Il finestrino appannato per la pioggia torrenziale ha celato all’automobilista la mia identità femminile e non gli ha consentito di formulare l’invettiva secondo un’appropriata modulazione di genere. Passata la meraviglia per l’espressione nefasta e colorita, mi domando il perché di tanta ira. Quel signore aveva una tale fretta da non poter pazientare qualche secondo dietro il mio andamento prudente? Stava forse accorrendo al capezzale della madre morente? Mi chiedo cosa frulli nella mente di noi palermitani quando siamo al volante. Mi ritorna il ricordo del litigio furioso tra due automobilisti, avvenuto qualche anno fa, vicino la Stazione Centrale: litigio degenerato in omicidio. Solo per un graffio su un’automobile metallizzata. Morire per niente. Ecco cosa abbiamo nel cuore: un vuoto assoluto.
Maria D’Asaro
(pubblicato su “Centonove” il 17-11-2010)

giovedì 18 novembre 2010

La bella e la bestia

Da romantica inguaribile, chiedo comprensione ...

(In fondo si tratta di una resurrezione suscitata dall'amore. Quando guardiamo qualcuno con amore lo facciamo vivere...)

mercoledì 17 novembre 2010

Quindici anni e tre mesi

     Bastava un bambino che vociava più forte del solito, nel parco giochi del palazzo. O un’amica che non smetteva di commentare la pagella della figlia. E quel tarlo silenzioso si riaffacciava all’improvviso, nel balcone disordinato dei pensieri. Quasi obbligandola, ogni volta, a un conteggio. 
Che faceva piano, calcolando ogni volta anni e mesi con la punta delle dita, come una bambina lenta coi numeri. Per ricordarsi quanto sarebbe stato grande, ora, quel lui o quella lei che non era mai nato.
     Era successo tutto troppo in fretta. Prima l’agonia del suo matrimonio. Franato senza un motivo preciso, per il groviglio di non detti, per la distanza che nessuno dei due era riuscito più a ricomporre. Da una parte l’immobilismo di Andrea, i suoi ingombranti silenzi e i suoi troppi pensieri, la sua incapacità di scherzare. Dall’altra, la sua insofferenza per la cappa ammorbante dei suoceri, il fastidio quasi fisico per l’irresolutezza di fondo del marito. E l’indifferenza crescente, la voglia di mollare e andar via. Con Roberta, l’unica figlia, ormai sullo sfondo. Sempre più grande e lontana. Con Fabrizio era iniziata per caso: affascinata dalla sua cinica spensieratezza, dalle migliaia di foto, dal suo catturare ogni scorcio e ogni sguardo, senza mai rubare l’anima a niente e nessuno. E lei, così attenta, aveva dimenticato qualche volta la pillola. Positivo, il risultato del test, fatto solo per scrupolo. Ma la ferita della separazione non si era del tutto richiusa. E poi questo compagno, così provvisorio… 
    Di certo c’erano invece il concorso all’università, inseguito da quasi vent’anni, e la collaborazione al giornale, finalmente con contratto firmato. E i suoi quarant’anni, che l’aspettavano al varco. Quest’altro figlio, adesso, no, non se lo poteva permettere.
Solo che ogni tanto tornava. Qualche anno fa, con Fabrizio che non voleva parlarne e lo stress del libro in cantiere, il ricordo era diventato ferita infetta. Che pulsava così forte da non farla dormire. Tant’è che le occhiaie e il tremore erano divenuti evidenti. Se n’era accorto persino Saverio, il compagno di università da decenni missionario in Brasile, quando un giorno l’aveva incontrata in stazione. “Ti offro un caffè – Volentieri.” “Che succede, Francesca…” – le aveva chiesto, discreto. Le aveva detto di Andrea, del matrimonio finito. Del nuovo compagno. E poi, guardandolo dritto negli occhi, aveva accennato a quella possibilità rifiutata, agli anni e ai mesi che continuava a contare. Lui le aveva sorriso, con uno sguardo dolce e un po’ triste. Le aveva sfiorato appena appena i capelli. Aveva poi sussurrato il nome di un medico, un ex compagno: “Hai bisogno di dormire. Perché non vai a trovare Luigi? A volte un farmaco è miracoloso…”. E poi, salutandola, le aveva lasciato l’indirizzo della casa-missione, a Recife: “Caso mai hai voglia di adottare uno dei miei bambini di strada…”.
      Con le pillole era andata un po’ meglio. Adesso dormiva, la notte. Le adozioni a distanza erano state poi due. Un bambino e una bambina. Il legame con Fabrizio si era ormai assestato sulle tranquille rotaie di una sopportabile diversità. Chissà, forse sarebbero persino invecchiati insieme.
Anche oggi però si era ritrovata a contare: quindici anni e tre mesi.
Poi, lo squillo del cellulare. La redazione: il pezzo su Voltaire. Subito, per favore. Domani sarebbe andato in cinquantottesima pagina. Francesca richiude le dita e ripone delicatamente il ricordo nel suo ripostiglio segreto. Adesso l’aspetta il suo fragile, provvisorio figlio di carta.

Maria D'Asaro

sabato 13 novembre 2010

Muovesi l'amante

Leonardo da Vinci: La vergine delle rocce


        Quelli/e che sono nati qualche tempo fa, forse ricordano la vita di Leonardo, andata in onda su Rai 1. La sigla finale, cantata dalla Vanoni, era una canzone composta da Leonardo stesso.

"Quando l'amante è giunto all'amato, là si riposa...
  (La qualità del suono è scadente, ma non sono riuscita a trovare di meglio)

Nantes

"E' da tempo che non ti vedevo sorridere" ...

venerdì 12 novembre 2010

Neri di Sicilia

       Periferia est di Palermo. Vicino al mio palazzo ci sono vasti campi coltivati. Chine sulla terra, schiene curve tolgono erbacce, dissodano la terra, spandono (ahimè) un diserbante. Le schiene conducono ai volti: chiusi, sofferti. Spesso neri. Non abbronzati, come, con discutibile goliardia, li definirebbe il potente di turno. Anche all’interno del panificio scorgo visi più scuri del mio: a impastare il pane, preparare le pizze, farcire le torte. Questo a tutte le ore del giorno: senza tregua, senza riposo festivo. Temo con scarso salario e pochi diritti. Da noi gli extracomunitari sono sommersi, silenziosi, invisibili. Ci accorgiamo di loro al distributore automatico. Dove c’è sempre un lui di colore pronto a mettere dieci euro di benzina nella tua macchina. Anche se c’è vento. Anche se è notte fonda. E piove. E fa molto freddo. In faccia, non lo guardiamo neanche. E qualcuno, magari, gli nega persino la mancia: 50 centesimi…

Maria D’Asaro (“Centonove”, 12-11-2010)

giovedì 11 novembre 2010

101 STORIE: DUE OCCHI AZZURRI INCREDIBILMENTE PULITI


Non sono nata psicopedagogista. Sono stata, innanzitutto, una “normale” insegnante di Lettere alle scuole medie. Ma ho anche insegnato ai corsi serali per lavoratori: a Bagheria e a Palermo, a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Esperienza esaltante e complessa, essere la prof. di panettieri, fruttivendoli, disoccupati, casalinghe. Persone costrette a tornare a scuola da adulti per ottenere quella licenza media che non erano stati capaci di conseguire da ragazzini: perché la famiglia li aveva mandati a lavorare troppo presto, perché i professori non li avevano aiutati abbastanza, perché “professorè, ero troppo tosto, e proprio di scuola non ne volevo”, perchè un padre o un fidanzato geloso le aveva costrette a stare a casa, quando, come la Maria di De Andrè “la loro verginità si tingeva di rosso”.
La scommessa, per noi docenti, era fornire a quegli uomini e a quelle donne le competenze di base perché sapessero scrivere una domanda di lavoro e un curriculum vitae, perché conoscessero un minimo di scienze, matematica, storia e geografia per essere ammessi agli esami; ma l’obiettivo più grande era prenderli per mano e condurli nel sentiero, tutto in salita, che portava alla consapevolezza umana e civile dell’essere cittadini adulti, consapevoli di giocare un ruolo attivo in una città e in uno stato, qui e ora.
Quasi tutti, col passare delle settimane, cominciavano ad abbandonare la diffidenza verso i professori e la paura di non farcela. E accadevano cose strane e bellissime: si leggeva e commentava la Costituzione italiana con chi era avvezzo a leggere la “Gazzetta dello Sport” o tutt’al più, sfogliava distrattamente il quotidiano locale insieme alla più allettante “Cronaca vera”… Dopo la lettura dei primi articoli, eliminato l’ostacolo delle parole difficili, ci si appassionava insieme a quella strana e inusuale lettura. Dalla lettura della Costituzione, si parlava poi di sfruttamento o intimidazioni, di elementari diritti violati, di raccomandazioni, di voti comprati per fame e bisogno. Di chi, al di là della legge, comandava veramente, in Comune, nel proprio quartiere… I più onesti e coraggiosi elencavano ingiustizie e vessazioni note o subite, altri si limitavano ad annuire in silenzio, stringendosi alle spalle. Ma alla fine qualcuno affermava con tristezza: “Lei dice cose belle, professoressa, ma tanto in Sicilia non cambierà mai niente…”

A Bagheria, alla fine degli anni ‘80, a frequentare la scuola serale c’era anche F.: solo la terza elementare al suo attivo e una vita randagia su una barca che era insieme casa e lavoro. Non aveva una famiglia vera e propria su cui contare: i suoi erano separati, la madre se n’era andata, costruendosi un’altra famiglia. Si entusiasmava solo per il mare e la pesca. A un’esperta che venne a parlarci di inquinamento marino, ribatté che “le schifezze sono sulla terra e non nel mare”, quasi a voler preservare con ostinazione la sua azzurra e ovattata realtà sottomarina da ogni possibile contaminazione terrestre.
Una volta, dopo una lezione che gli era sembrata forse troppo difficile, F. aveva detto di “volersi ritirare”. L’avevamo convinto a non mollare. Dopo Natale, ci era sembrato più sereno e a suo agio; accanto a lui c’era sempre qualche compagna più brava che gli dava una mano. Alla collega di Lettere aveva confidato che il suo sogno era di riadattare un vecchio rustico in campagna dal quale potere vedere il mare riaprendo gli occhi al mattino.
Da metà febbraio, a scuola non venne più. “Che fine ha fatto F.?” – chiedevamo ogni giorno facendo l’appello. Il primo marzo lo hanno trovato. In un pozzo, immerso nella calce. Con un proiettile in testa.
Ci siamo chiesti mille volte che cosa avremmo potuto fare per lui. In che modo, a scuola, avremmo potuto aiutarlo. Una volta, sempre alla docente di Italiano, aveva detto di essere amico di Mario Prestifilippo, uno dei presunti killers del generale Dalla Chiesa. La collega non ha avuto il tempo di chiedergli qualcosa in più su quella frase, smozzicata e inquietante.
Ci è rimasto il dolore e la rabbia per la sua orribile morte: per questo nostro ragazzo fragile rubato alla vita, al suo sogno di normalità, testimoniato dal ritorno a scuola. Sapevamo che nessuno avrebbe chiesto per lui “verità e giustizia”. E un’esile consolazione: che le serate passate alla scuola serale siano stati tra i pochi momenti sereni e di accoglienza affettuosa che F. abbia avuto, nei suoi unici ventitre anni di vita. Poi solo un mazzo di fiori, al terzo banco a sinistra, a ricordo dei suoi occhi splendidi azzurri.


[1] La storia di F. è già stata magistralmente raccontata dalla collega Mari D’Agostino, ora docente all’Università degli Studi di Palermo, nello scritto (da cui riprendo il titolo): “Due occhi azzurri incredibilmente puliti” pubblicato nel n.100 della rivista palermitana “Segno”, dicembre 1988.



domenica 7 novembre 2010

SE NIENTE IMPORTA


Non si tratta di una lettura facile. Anzi, posso dire che è proprio difficile da mandar giù. E non certamente perché il libro sia scritto male. Al contrario ha un respiro fresco e scattante. Alterna storie personali, riflessioni, documenti, interviste. Scorre liscio e scorrevole come un racconto. 
Ciò che è indigesto in Se niente importa di Jonathan Safran Foer (ed. Guanda, Parma,  2010, € 18) è il contenuto. Che tratta di un tema fondamentale quale è il cibo. E, a noi consumatori occidentali saturi di bistecche, onnivori superficiali e contenti, suggerisce la possibilità di scelte alimentari diverse, più consapevoli ed etiche. Ma appunto, poiché: “Il cibo è cultura, abitudine e identità (pag.281) e, da sempre “Mangiare è anche un fatto sociale (pag.280), proporre di abolire il tacchino per la festa del Ringraziamento (o, analogamente, rinunciare alle nostre latitudini al capretto per Pasqua o al cappone a Natale) per abbinare cibo e scelte economiche più sagge, pranzi e ragioni morali e ambientali, è materia complessa e difficile. Perchè, suggerisce l’autore “Un’etica del cibo è così complessa perché il cibo è legato alle papille gustative e al gusto, ma anche alle biografie individuali e alle storie sociali (pag.40).
E, nella nostra cultura, da millenni ci si ciba di animali: uccelli, pesci, pecore, mucche, maiali. Ma non di cani, ad esempio. Perché, ci chiede provocatoriamente Foer? Forse perché il cane abita con noi, mentre le altre bestie sono più distanti nella nostra visione della vita? Ma questo può giustificare l’orrore degli allevamenti intensivi nei quali facciamo vivere, se di vita si può parlare, pesci, galline, vitelli? E giustifica la loro uccisione in modo spesso barbaro e crudele dopo averli costretti a una vita orribile? In pagine veramente toccanti, Foer ci mostra gli allevamenti intensivi di tacchini e di polli esistenti negli U.S.A., allevamenti/lager che hanno come unica finalità la crescita degli utili dei loro padroni. Lo scrittore, in verità, ci parla anche di quei pochi allevatori che tentano di mantenere gli animali in un habitat più naturale e di garantire loro una vita più degna, prima della macellazione; perché, se proprio non riusciamo a essere vegetariani, possiamo almeno scegliere di mangiare carne di animali a cui i loro padroni hanno regalato una vita e una morte meno bestiali, se ci è consentito l'utilizzo di quest'aggettivo...
Capiamo allora perché, per un lettore che si professa onnivoro incallito, il libro può risultare assai indigesto: perché lo costringe a perdere la sua innocenza, perché connota di colpevole indifferenza anche un’azione apparentemente naturale e quotidiana come quella di cibarsi di uova di gallina allevate intensivamente o della fettina pallida di vitello. “Quando alziamo la forchetta, diciamo da che parte stiamo (pag.280), afferma infatti l’autore. Perché decidere cosa mangiare, se essere onnivori accomodanti o vegetariani esigenti, è in qualche modo una scelta valoriale. E’, ripete l’autore, una scelta esistenziale e filosofica, economica e ambientale insieme. Perchè essere vegetariani o quantomeno scegliere di non mangiare pesce o carne proveniente da allevamenti intensivi: “aiuterà a prevenire la deforestazione, a contenere il riscaldamento globale, a ridurre l’inquinamento (…), a migliorare la salute pubblica e a contribuire a eliminare i maltrattamenti sugli animali. (pag.275,276).
E infine, Jonathan Foer suggerisce un legame implicito e forte tra le scelte alimentari da lui proposte e la crescita della nostra sensibilità personale e sociale, del nostro potenziale umano, volto alla costruzione di rapporti interpersonali costruttivi e nonviolenti: “La nostra reazione all’allevamento intensivo è in definitiva un test su come reagiamo all’inerme, al più remoto, al senza voce (pag.285.) La compassione è un muscolo che si rafforza con l’esercizio, e allenarsi a preferire la gentilezza alla crudeltà ci cambierebbe… Che mondo creeremmo se tre volte al giorno la nostra compassione e la nostra razionalità intervenissero mentre ci sediamo a tavola, se avessimo l’immaginazione morale e la volontà pratica di cambiare il nostro atto di consumo più essenziale? (pag.276.) Sicuramente migliore, parola di Jonathan Foer.
                                          Maria D’Asaro     (“Centonove”, n.44 del 19.11.2010)

sabato 6 novembre 2010

STERILI



Sterili
gusci vuoti
le tue parole:
senza carne, senza respiro.
Spente.
(A un blog - ormai senza vita da quasi due anni -che ospitava gli scritti speciali di un'amica, fragile e sconosciuta, a cui mi ero affezionata)

venerdì 5 novembre 2010

DECRESCIAMO FELICI E CONTENTI


Oltre Napoli, anche Palermo è ciclicamente sommersa dall’immondizia E’ vero, la città non eccelle per buon governo. Ma è anche vero che un’economia basata sulla crescita infinita non può che avere come epilogo un pianeta ridotto a immondezzaio, come ci mostra Wall-E, eccellente film d’animazione. Più che inceneritori o nuove discariche, serve un cambiamento di prospettiva, che ci induca a “non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; a distinguere la qualità dalla quantità; a valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; a collaborare invece di competere.” Sono riflessioni di Maurizio Pallante, appassionato sostenitore del movimento della decrescita: “elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune, in modo che i suoi inquilini possano viverci al meglio.” Decrescentisti di tutt’Italia, unitevi!
Maria D’Asaro
( pubblicato su “Centonove” il 5-11-2010)

giovedì 4 novembre 2010

L'AMACA


Fossimo buoni cristiani, o più banalmente brave persone, dovremmo farci umanamente carico non del signor B (lui è irrecuperabile, e comunque basta a se stesso), ma del triste gruppetto di persone che ieri lo applaudivano sghignazzando mentre diceva la sua battutella omofoba. Nella scala degli ultimi, questi nostri fratelli occupano il gradino più basso. Di ognuno, noi vorremmo e dovremmo sapere perché si è ridotto a questo ruolo degradato, neanche di complice, al massimo di comparsa servile. Noi possiamo continuare ad augurarci, non importa se per un giorno o per altri vent´anni, che il signor B si levi di torno, e vada ad Antigua con i suoi bauli di quattrini e di fanciulle. Rimarremo, però, in compagnia di quella triste claque ignara, nella suburra italiana convinta che un puttaniere innamorato di se stesso sia, a prescindere, migliore di un "frocio" innamorato di un altro. A ragionare così sono nostri vicini di casa, nostri compagni di lavoro, nostri connazionali, nostri simili. A loro, del nostro giudizio, importa meno di zero. Ma noi, finché non avremo capito perché ragionano così poco, e pensano così basso, come possiamo darci pace? . La loro rovina, fin qui, è stata, per contagio, anche la nostra.

M. Serra (La Repubblica, 3.11.2010)
Un mio conoscente su FB ha commentato così:

(Il problema infatti non è il signor B: ma ciò che la telecrazia e questi vent'anni al potere ha determinato nelle coscienze di ognuno di noi. (...) Perchè a mio avviso il berlusconismo non ha aizzato solo le pance di quelli che lo idolatrano o lo votano o lo amano: ma ha agito anche in noi e sta agendo cambiando le nostre maniere di vedere e di sentire. Il problema è che ci vorranno anni per poter capire e cambiare la profonda frattura che il berlusconismo ha determinato nelle nostre coscienze e di cui neanche noi ci accorgiamo, ma che possiamo spesso percepire nei nostri figli che guardano i programmi spazzatura della TV commerciale. Si potranno cambiare le leggi che ha fatto, ma le coscienze inquinate ed avvelenate, come e quando potranno guarire ? Prevale la parte più nera: quella razzista omofoba prevaricatrice egoista prepotente invidiosa distruttiva... cambiare sarà difficilissimo. La vedo dura")

mercoledì 3 novembre 2010

Frigg - Norrsken

Gruppo Folk Finlandese: hanno rinnovato le melodie locali; sono la new wave di Kaustinen, Finlandia, e del folk festival che lì si è svolto quest'anno.
Non viene voglia di ballare?


martedì 2 novembre 2010

101 STORIE: CHE SUCCEDE, SE MANCA LA LUCE...


I due maschietti, in I media, vennero insieme. Ma non erano gemelli: uno, dodici anni; l’altro già tredici. In ritardo tutti e due perché bocciati alle elementari: una volta C., due volte P. Ci accorgiamo subito che qualcosa non va: i ragazzi sanno leggere e scrivere appena. Ieri non sono andato a scuola, C. lo scrive così: rinosono adato scola. Come se non avesse finito neppure la prima. E poi ogni tanto si assentano. Siamo appena a novembre, la collega mi chiama e mi dice: - Mancano spesso e nemmeno giustificano. Ho chiesto alla famiglia di dirmi perché non comprano i libri di testo: la risposta non è mai arrivata - . Poi si rivolge a uno dei due, con tono affettuoso: - Perché la mamma non ha giustificato? E perché non risponde al messaggio?- C. si stringe alla spalle: il suo viso è attraversato da un lampo di dispiacere. Dico alla collega che chiamerò la famiglia. Cerco il numero di telefono. E’ un cellulare. (Anche questo è un segnale: i più poveri non hanno più il telefono fisso: così non pagano il canone. E, ovviamente, non hanno neppure Internet. Il Digital divide[1] tra gli alunni è spesso abissale). Qualche squillo. Poi risponde una voce: - Signora, sono la psicopedagogista di scuola, ho bisogno di incontrarla al più presto – Un attimo di silenzio, c’è una bambina che piange. Poi la signora risponde: “Pozzu venire dumani doppu mezziorno…picchi me figghia mi lassa la picciridda – Va bene, signora, l’aspetto domani.
L’indomani, quasi puntuale, ecco la madre dei fratellini: più bassa di me, larga di fianchi e di viso, occhi mobilissimi e neri. Un elastico raccoglie alla meglio una coda di lunghi capelli castani con striature biancastre. Vestiti modesti, non proprio stirati. Mani tozze e grassocce, abituate a continue fatiche, unghia corte e spezzate. La signora sorride, confusa e un po’ imbarazzata: - Che succede signora, i ragazzi mancano spesso… O arrivano in grande ritardo – Ci aia dari lignati un si vonnu susiri ca matinata, u sacciu c’anna veniri a scola
[2] – No signora, nenti lignati, li aiuti a venire puntuali – Alla signora si inumidiscono gli occhi, tira su col naso e si asciuga due lacrime col dorso di una mano: - Aiu me matri malata ca grida, aiu a dari adenzia a idda, picchi aiu l’accumpagnamentu, me maritu è disoccupatu, dintra aiu cinqu figli[3] – Non solo C. e P.: anche un ragazzo di 17 anni, una bambina di 10, una ragazza di ventidue, un marito disoccupato, una vecchia madre invalida e aterosclerotica. L’unica figlia: – Fuiuta cu na picciridda: idda sta puru cu nuatri. E pure me ienniru[4]. - Perché non può pagare l’affitto. E iddi un si vonnu susiri, all’orario. Iu fazzu a bili… Professorè, lei mi pare na bona signura: u sacciu ca i me figghi su tosti e un sannu nenti, lei m’havi aiutare[5]… - Mi guarda, con occhi che implorano la mia comprensione.
La guardo e capisco che, in qualche modo, lei svolge il suo ruolo di madre. Come può, come sa. I ragazzini, in fondo, hanno uno sguardo sereno. Le chiedo – ma ormai ho capito – se è in grado di scrivere. Mi dice che è analfabeta. Sa apporre solo la firma.
Da allora, per anni, con lei un filo diretto. Perché il problema di C. e P., più che le divisioni e la lettura stentata, sono i vestiti logori, il giubbotto che manca, le assenze continue, i graffi che P. prende dal fratello maggiore a cui non vuole cedere il letto, la merenda e il pranzo che spesso non c’è. Scriviamo, ovviamente, ai Servizi sociali: la lettera attende, polverosa e invecchiata, ancora un riscontro. Si chiedeva un aiuto, una visita domiciliare. Per dei ragazzi che intanto vengono a scuola. Non sono dispersi. Nè maltrattati. Ma a Palermo, si sa, la povertà non è un’emergenza: con i tagli agli organici, per C. e per P., il Servizio sociale ha poco da fare. Il loro stomaco poteva aspettare, paziente, all’ora di pranzo, quando, tre volte su sei, i ragazzi rimanevano a scuola. - C. non ha niente in cartella – comunica l’insegnante di turno. Che fare?
Fu così che li abbiamo “adottati”: la mensa e il panino li dava la “scuola”... E i libri. E quaderni e colori.
Due anni dopo è arrivata la sorellina. Sgradevole, ispida, quasi selvaggia. Non sapeva neppure parlare. Intanto C., in seconda, era stato bocciato. – Non è solo indietro, secondo me non capisce – dice così la collega, attenta e dubbiosa.
A volte mi tocca un compito ingrato. Chiamare le mamme (e i papà, se ci sono): e dire con tatto e dolcezza che una visitina, un controllo all’Asl sarebbe opportuno. E’ duro da dire. Perché la prima reazione è sempre, dopo uno sguardo perplesso o infuriato: - Mio figlio… perché …. non ha niente … non è scemo … è normale –
E allora io dico che è vero, che hanno ragione. Però magari, il figlio, la figlia ha bisogno di un aiuto speciale. La madre di C., P. e G. mi guarda negli occhi e capisce: - Professorè, se è per il bene dei miei figli, iu ci li porto. Ma un facemu ca mi levano i picciriddi… - E si asciuga gli occhi, ancora una volta. Le chiedo di fidarsi di me. Nessuno le porterà via i suoi bambini.
La signora manterrà la promessa. C. e G. avranno un certificato: lieve ritardo mentale. E un insegnante per loro: il famoso sostegno. E lezioni e percorsi tagliati per loro. Così, possiamo promuoverli. Il grande è già in terza media. Lo aiutiamo e preparare il colloquio d’esame.
Quell’anno successe una cosa. Gli insegnanti li vedevano stanchi, nessuno dei tre studiava a casa qualcosa. Eravamo a gennaio. E’ C. a parlare: “C’è friddu, professoressa. Non posso fare i compiti perché non ci vedo - . Scopriamo che gli hanno tagliato la luce. – U papà un travagghia e un putemu pagari.
Chiamiamo la signora. Questa volta piange senza ritegno. Da un anno non paga la luce. I soldi bastano si e no per mangiare. – Mi danno i pacchi pure a Santa Caterina…
[6] Il marito è a Bologna, a cercare lavoro. – Ma l’assistente sociale la sa questa cosa? – chiede premurosa la Preside. – A dumanna a fici, ci devo tornare tra 4 mesi.
Siamo in inverno. E i ragazzi sentono freddo. Con le candele non possono leggere, P. rischia di non fare gli esami. Riunione speciale: La Preside, io, vari docenti. Ci guardiamo negli occhi. – Ci porti la bolletta, domani – dice in fretta la Preside alla signora. Due giorni dopo è pagata. Qualcuno telefona subito all’Enel: per i tre alunni ritorna la luce.
Abbiamo pagato per un anno le bollette dell’Enel. E dato gli occhiali a G, che proprio non ci vedeva, neppure a tre passi dalla lavagna…
Comunque, non li abbiamo viziati. La preside li rimbrottava per i continui ritardi. Entravano spesso a seconda ora. Ogni tanto però tornavano a casa. – Perché non possono approfittare della nostra pazienza – sbottava la Preside. Alla fine, è rimasta solo la ragazzina: anche lei arrivava ogni giorno puntualmente in ritardo. Fu così che abbiamo conosciuto suo padre: scuro in volto, baffoni, impacciato, di poche parole. Aveva l’ingrato compito di negoziare con la Preside l’ingresso scuola di G. col consueto ritardo… Alla fine, scappava a tutti un sorriso…
Dove sono C., P. e G. adesso, mi chiedo… Avranno continuato la scuola? Abbiamo fatto all’inizio “continuità verticale”
[7]: ma all’Artistico, all’Alberghiero e al corso per parrucchiera ci saranno poi andati ogni giorno? Non lo so, non posso saperlo.
Quando G. era in terza media, sua madre un giorno è venuta. Non l’avevo chiamata. Chissà cosa vuole – ho pensato tra me. La signora ritira in portineria l’ennesimo libretto di giustificazioni. Poi, mi dice, con aria segreta, - Ci pozzu fari a vidiri na cosa? – Entriamo nella mia stanzetta. Da un borsone tira fuori un album di foto: - Questa è mia figlia, professorè … E questa è mia nipotina…Ci vulia a fari canuscere a lei. E' sapurita, a picciridda, unn'è veru...? -







[1] (Da Wikipedia, l'enciclopedia libera: Il digital divide è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell'informazione (in particolare personal computer e internet) e chi ne è escluso, in modo parziale o totale.
[2] Devo prenderli a botte, non vogliono alzarsi di mattina, ma io lo so che devono venire a scuola
[3] Ho mia madre malata, devo dare assistenza a lei, innanzitutto, perché ricevo l’assegno per l’accompagnamento
[4] E’ scappata con un uomo: ora ha una bambina: lei e la figlia abitano a casa nostra. E anche mio genero.
[5] I ragazzi non vogliono alzarsi, all’orario stabilito. Io mi innervosisco … so che i miei figli sono monelli e sono digiuni di scuola, ma lei deve aiutarmi…
[6] Si tratta di una parrocchia del quartiere
[7] Contatti didattici con la scuola superiore per facilitare l’inserimento degli alunni