martedì 7 dicembre 2010

05.12.2010: II DOM. AVVENTO

L’incontro con Giovanni Battista ogni volta è frontale: non ci consente di potere girare intorno, di poterci distrarre, perchè questo parlare guardando negli occhi è molto forte. Esaminiamo intanto il suo linguaggio non verbale, prima delle sue parole.
Giovanni vive nel deserto. Guardiamo come veste, non da cittadino, ma come un monaco: il suo vestito è una pelle e una cintura ai fianchi. Su questa cintura, gli esegeti fanno notare che il profeta Elia, quando sarebbe venuto il Messia, si sarebbe presentato con questa cintura. Quindi Giovanni Battista è il profeta Elia redivivo… Ecco, questa cintura, questa cintura per muoversi… Cosa mangia: non cibi cittadini, ma le locuste e miele selvatico. Vive vicino a un fiume, anche perché qualche volta si lava, credo, ha ovviamente anche bisogno di bere.
Il linguaggio non verbale, quello del corpo, già ci parla, è già loquace: Giovanni prende le distanze dalla città, ci propone uno sguardo critico nei confronti della città. Dove, a un certo punto, potremmo anche confonderci, perché le cose avvengono, devono avvenire, si macinano a vicenda.… Invece Giovanni sta fuori per uno sguardo critico verso la vita della città, per ogni assetto della vita della città. E la gente è con lui.
Che cosa dice col suo parlare, Giovanni? Questa volta ci rivolgiamo al suo linguaggio verbale. E’ pesante, perché non usa parole dolci verso coloro che pure, visto che andavano da lui, erano ben disposti: il paragone che fa è “razza di vipere”, perché proprio vipere? Perché, nella sue esperienza di deserto, il pericolo sono le vipere, credo, no …. evidentemente non c’erano leoni, nel deserto. C’erano vipere, e le vipere sono velenose, e Giovanni evidentemente le temeva.
E poi: - Ma voi siete tutti a posto con la coscienza? - dice a costoro che a quanto pare sono persone per bene, per benino … Ma Giovanni dice loro: - Dove sono i frutti, i frutti del vs. agire, dove sono? Sta arrivando il momento del giudizio di Dio, senza mezzi termini. State attenti, perché adesso è arrivato il momento della verità.
Ecco che Giovanni lo sentiamo tutti come la persona capace di denunziare, in questo è veramente il più grande profeta dell’Antico Testamento e da lui dobbiamo imparare quest’arte della denunzia. Che non è tutto però. Perché Gesù, per certi aspetti, smentirà Giovanni. Gli dirà che la denunzia ci vuole, ma non è l’annunzio. Non basta denunziare, bisogna anche annunziare.
Non basta condannare: bisogna anche aprire la possibilità di qualcosa di nuovo.
Come ci faceva sognare il profeta Isaia: il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera col capretto, il leone col bue… il sogno di una riconciliazione tra tutti, di una pace che è pienezza di bene.
In che cosa Giovanni coglie certamente nel segno? Nel percepire che è arrivato il momento della metanoia, cambiamento radicale di mentalità. Che significa questo? Che non siamo chiamati soltanto a cambiare qualche particolare, che non dobbiamo cambiare solo qualche dettaglio: siamo chiamati a una critica radicale. Che va alla radice. La ns. società cerca di mediare tra tante cose, ma il fine della società è quello di garantire la sopravvivenza, di aggiustare alcune cose.
Il Vangelo, invece, non punta al minimo, il Vangelo invece punta a un cambiamento radicale, dove a tutti viene offerto il massimo che è desiderabile e che deve essere coltivato in cima ai nostri desideri, in cima alle nostre azioni. Non ci basta, non ci basta davvero accontentarci. Il Vangelo ci propone un’altra cosa. Una qualità radicalmente nuova.
Ecco perché siamo invitati a una metanoia, un cambiamento di testa: perché la società in cui viviamo ci abitua ai cambiamenti necessari, ma spiccioli, materiali, che pure ci vogliono, senz’altro… meno male che c’è un livello di legislazione che tende sempre di più a garantire la qualità della vita. Ma il cambiamento di mentalità che il Vangelo ci propone ha a che fare con la qualità dei rapporti tra le persone, e tra Dio e noi, la qualità dei rapporti, non solo delle cose, che pure possono essere migliorate.
La metanoia, cioè la conversione, è un appello a ciò che siamo dentro di noi, al modo in cui ci relazioniamo tra di noi, al modo come ci guardiamo, al modo in cui ci riconosciamo. E quindi Giovanni coglie nel segno, direi ancora di più in quest’appello, che ci vuole fare scoprire che il mondo non è come lo vuole Dio.
Ecco perché torniamo a celebrare la stessa parola di Dio, della quale scopriamo sempre cose antiche e cose nuove. La parola di Dio ci invita a un cambiamento radicale, che non coincide necessariamente col cambiamento dei governi – certo il cambiamento dei governi ci può aiutare – ma la parola di Dio non coincide con questo. La qualità dei rapporti tra le persone, su questo, non c’è governo che tenga: questo ha a che fare con un appello che ci viene da Dio stesso. Da Dio stesso, attraverso la sua parola. Poi, dobbiamo tentare di tradurre nelle istituzioni, come possibile, il meglio che di tale appello riusciamo a tradurre.
Ma la metanoia è qualcosa di molto più profondo e impegnativo. E comincia da ciascuno di noi: da un modo diverso di guardarci, di riconoscerci, di accoglierci, di dare spazio gli uni agli altri, di volerci conoscere, di volere costruire insieme, di volere superare tutte le difficoltà, di ricominciare tutto da capo, cosa che potrebbe essere anche una vana pretesa, tra l’altro.
Eppure dobbiamo, ogni volta, ricominciare daccapo. L’avvento di Dio si caratterizza sempre come un novum, una novità, che è come se ci insegnasse a guardare di nuovo le cose, con occhi nuovi, con cuore nuovo. A toccare le cose con mani diverse. Mani non di possesso, non di accaparramento, ma di relazione, di espressione, di comunicazione autentica.
Allora, che ognuno di noi porti dentro di sé la metanoia, portiamocela dentro. E ripartiamo dal profondo del nostro cuore. Care sorelle e fratelli, questa è la bella notizia di oggi. Ciò a cui Dio ci chiama. Perché crede in noi, Perché crede che qualcosa può ripartire proprio da noi stessi.

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