giovedì 10 settembre 2009

INSEGNANTI MENO VIOLENTI




RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: INSEGNANTI MENO VIOLENTI (per contatti: acavadi@alice.it): intervento apparso nella rivista semestrale
"Amica Sofia", giugno 2009 (www.amicasofia.it), col titolo "Insegnanti meno
violenti: e' possibile?"]

Ci sono tanti modi per fare memoria dei pionieri che ci sono stati maestri, ma una sola e' la maniera davvero efficace: proseguire la loro opera con fedelta' creatrice. Tra quanti hanno saputo ripercorrere la strada di Aldo Capitini, con la docilita' di chi vuole imparare e il coraggio di chi osa andare oltre sperimentando nuove piste, il caso - o la provvidenza - mi ha regalato la possibilita' di conoscere Andrea Cozzo e di fruire, a tutt'oggi, della sua preziosa amicizia. In poche righe non e' pensabile dare conto della sua ampia riflessione ne' tantomeno delle sue disparate pratiche generose: ma poiche' e', anche, un educatore (sia pur... preterintenzionale)
posso provare ad evocare alcune sue indicazioni essenziali per chiunque
voglia dare alla propria pratica pedagogico-didattica una valenza
squisitamente nonviolenta.
Nel suo trattato piu' organico (Conflittualita' nonviolenta. Filosofia e
pratiche di lotta comunicativa, Mimesis, Milano 2004) il mio amico Andrea -
che all'Universita' di Palermo insegna non solo lingua e civilta' greca, ma
anche teoria e pratica della nonviolenza - dedica al nostro tema una sezione
piu' teorica (la nonviolenza culturale) ed una piu' esperienziale (la
mediazione scolastica). Vediamo, in sintesi, alcuni passaggi della sezione
relativamente piu' teorica.
Il presupposto, che l'autore chiarisce abbondantemente nei capitoli
iniziali, e' che "nonviolenza e' conflittualita' e buona comunicazione": il
nonviolento non glissa i conflitti, ma li affronta e li gestisce in maniera
costruttivamente dialogica. Che significa cio' nel campo dell'educazione e
dell'istruzione? Innanzitutto problematizzare l'ovvio: che "il rapporto con
l'altro va impostato in termini di gioco a somma zero per cui educare ed
insegnare sono atti che qualcuno deve effettuare su coloro a cui sono
diretti, mentre se non vi riesce, risulta sconfitto". L'alternativa proposta
da Cozzo non e', evidentemente, il mero rovesciamento del rapporto:
"comportarsi in modo nonviolento nella relazione con i bambini non vuol dire
essere passivi rispetto alle loro azioni o volonta', instaurando una
gerarchia inversa in cui noi saremo i minori e loro i Maggiori". Vuol dire
piuttosto, per riprendere una felice formulazione di P. Patfoort (Costruire
la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti, La Meridiana, Molfetta
1995), "trattarli sulla base dell'equivalenza specialmente quando e' in
gioco una diversita' di opinioni, punti di vista, valori, ecc. Se non
abbiamo mai adottato o tentato di adottare un simile modo con gli altri, non
crederemo che sia possibile".
Conosciamo bene l'obiezione, che soprattutto negli ultimi anni si leva
immediatamente, soprattutto da parte degli "adulti" insicuri delle proprie
idee e, percio', indisponibili a metterle in discussione anche con persone
piu' giovani che - solitamente - non dovrebbero essere cosi' ferrati
dialetticamente da gettare in confusione gli interlocutori: no, questo e'
relativismo! Con i ragazzi non bisogna farsi vedere minimamente incerti:
altrimenti come si potra' essere un punto di riferimento per loro? Ma questo
significa sottovalutare il senso critico dei nostri figli, dei nostri
alunni: essi hanno un fiuto pressoche' infallibile nel riconoscere le
certezze maturate autenticamente negli adulti (e proprio per questo offerte
con serenita' come ipotesi di lavoro) e le certezze tanto piu' urlate quanto
meno radicate (e proprio per questo imposte con aggressivita' come dogmi).
"In realta'" - spiega l'autore - "questa educazione non e' ne' autoritaria
ne' lassista, ma mira a dare potere a tutte le parti, che non sono da
supporre a priori in contrapposizione competitiva bensi' semplicemente
all'interno di una relazione che puo' essere strutturale in modo
cooperativo: si ottiene l'ascolto del bambino dando a propria volta
ascolto - ascolto attivo - al bambino".
Danilo Dolci, in proposito ricordato dallo stesso Cozzo, l'aveva notato con
lucida amarezza: "In poche istituzioni la violenza e' implicita come nella
scuola" (Nessi fra esperienza etica e politica, Lacaita, Roma 1993). Per
sradicarla, o per lo meno per ridurne la portata devastatrice, c'e' una sola
strada maestra: che l'insegnante rinunzi al potere ricattatorio di chi esige
obbedienza e che si comporti come uno che non solo "ne sappia di piu', ma
anche, e senza che cio' sia requisito soltanto accessorio, che l'altro
persuada per il suo modo di vivere (e lasci effettivamente libero di
accettare o no sia il suo sapere sia il suo modo di vivere)".
Questo spazio fra la propria testimonianza (Kierkegaard direbbe: la propria
"comunicazione indiretta") e la decisione del giovane di accoglierla o meno
e' davvero essenziale. Il '68 ha messo in crisi - opportunamente - il
modello del docente che trasmette unidirezionalmente il proprio sapere: il
docente "medium che serve a raccogliere e sintetizzare un gran numero di
informazioni da 'dare', appunto, agli alunni". Come nota acutamente
l'autore, dopo la stagione della contestazione giovanile, "il razionale
'dare' si e' spostato piu' sul 'darsi' (...), un'operazione che gli
insegnanti fanno con grande passione e trasporto", ma con effetti non meno
deleteri: "questo trasporto e questa passione hanno a che fare molte volte
con il desiderio e la possibilita' di riversamento di se': il quale, certo,
da un lato suggerisce una pienezza e uno strabordare, un espandersi e un
darsi, appunto, un donarsi; ma dall'altra parte, esso puo' essere anche un
riempire qualcuno". Sul piano delle intenzioni soggettive, tanto di
cappello; ma, oggettivamente considerato, "questo atteggiamento, non
diversamente da quello del 'dare', finisce con l'essere una affermazione di
se', quasi una inconsapevole rivalsa: come se, dopo anni di apprendimento
obbediente e sottomesso nei confronti di coloro che vantavano un sapere
superiore (i nostri insegnanti), divenuti finalmente come loro, non
riuscissimo a rinunciare all'occasione per mostrare il raggiungimento della
nostra autonomia a spese altrui, continuando in tal modo la catena della
violenza".

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