domenica 31 maggio 2009

Fragranze…

     Vivere in una zona periferica di Palermo presenta parecchi svantaggi: assenza di servizi, trasporti poco efficienti, insufficiente pulizia e manutenzione di strade e marciapiedi. Bisogna però riconoscere che, in primavera, abitare vicino a Ciaculli, a Borgo Molara o in via Villagrazia ci consente di respirare il profumo di folate odorose di pitosforo, di piante di gelsomino e di fiori di zagara.
    I nostri bambini, nati e cresciuti davanti a un video dove non si percepisce l’odore di un ambiente, sono diventati degli analfabeti in fatto di odori. Incapaci oramai di distinguere l’odore del basilico da quello del rosmarino. Per loro la sconosciuta “citronella”, potrebbe essere un nuovo epiteto dispregiativo per le ragazzine.
    Allora perché non proporre agli insegnanti delle nostre scuole di periferia di progettare passeggiate, per alunni piccoli e grandi, per inspirare a piene narici l’aria profumata di maggio? Chiedendo agli dei, con Catullo, che ci facciano tutto naso.

Maria D'Asaro(Centonove, 29.5.09)

giovedì 21 maggio 2009

QUANDO CHIAMIAMO GLI ALBERI PER NOME E COGNOME


Chi si fosse trovato, domenica mattina, a passare per il Foro italico e per via Lincoln, avrebbe notato un assembramento “sospetto”: un gruppo che, passeggiando, sostava a ogni albero incontrato. Passeggiata “arborea”, appunto, grazie ai buoni uffici di un autodidatta, Jan Mariscalco, formatosi su “Arborea” di Mario Pintagro, testo/base per gli alberi palermitani. E, tra un’eritrina e una sterculia, mi chiedevo se la distrazione e l’incuria che tanti di noi mostrano per piante e alberi non derivi anche dall’ignoranza per i loro nomi. Pochissimi sanno che gli alberi hanno un nome e un cognome, proprio come uomini e donne. Appartengono a una famiglia (ecco il cognome), all’interno della quale hanno una loro specificità (ecco il nome): sig. Pino Cembro, sig. Acero Campestre, sig.a Acacia Dealbata Mimosa, …
Non abbiamo forse uno sguardo, un riguardo diverso verso chi conosciamo per nome? Forse, quando li chiameremo per nome, cominceremo a considerare gli alberi Cosa nostra. O, a scanso di equivoci, nostri fratelli minori. O maggiori, viste le dimensioni.
(pubblicato La Repubblica-Palermo, il 20.05.09)

L'AMACA (Michele Serra) 21.05.09


A me, sentirlo ripetere che è una vergogna e che è scandaloso, che a questi giudici non risponde e non risponderà mai, che a questi giornali non risponde e non risponderà mai, ormai non fa né caldo né freddo. Dopo tutti questi anni è solo una filastrocca risaputa, un suono tra i tanti, come i clacson per strada, come la musica di sottofondo negli ascensori.Quello che mi fa specie, a questo punto, non è lui; e perfino il suo destino personale non mi pare la cosa davvero rilevante. Quello che mi fa specie è il poderoso, compatto contorno di aiutanti, assistenti, avvocati, alleati, adulatori, seguaci, vassalli. È il consenso di massa, l´applauso convinto, l´amore senza se e senza ma di milioni di italiani. È lo smisurato cerchio di uomini e donne, la stragrande maggioranza in perfetta buona fede, la stragrande maggioranza bravissime persone, che lo circonda e lo protegge, lo ama e lo difende anche dall´evidenza. Finito lui, non sarà finito il palcoscenico sul quale si è esibito per vent´anni. Non sarà finito il suo pubblico, non sarà dispersa la sua gloria, non sarà ristabilito alcuno dei criteri (cancellati) che avrebbero dovuto e potuto arginarlo, fermarlo, magari evitarlo. Finito lui, non importa tra quanti anni, non sarà finita l´Italia che lo ha prodotto, adorato e portato al trionfo. In quella stessa Italia noi vivremo, con quella stessa Italia avremo a che fare. No, davvero non è lui il problema. Il problema siamo noi.

(La Repubblica, 21.05.09)

domenica 17 maggio 2009

Messaggere di luci



     Grata a un amico per l’affettuosa insistenza con cui me ne ha consigliato la lettura, in tempi di derive integraliste, di unilaterali proclamazioni della Verità, di tentazioni temporalistiche da parte di importanti settori ecclesiali e di pericolosi rigurgiti di intolleranza nel panorama sociale e politico, credo che il saggio di Stefania ArcaraMessaggere di luce” (Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2007, €20) presenti un’inquietante e drammatica attualità.
La studiosa ripropone la traduzione italiana degli scritti di due quacchere inglesi che, a seguito di un loro viaggio missionario, si ritrovarono a Malta, dal 1658 al 1662, prigioniere della locale Inquisizione. La traduzione rivela una profonda competenza e una accurata ricostruzione del contesto storico-religioso dell’accadimento narrato, esaustivamente proposto negli otto agili capitoletti nei quali Stefania Arcara commenta con sapienza il “racconto veritiero delle grandi prove e crudeli sofferenze” – così intitolarono le loro memorie – di Katherine Evans e Sarah Cheevers.
Come è noto, l’etimologia più diffusa del termine “quacchero” deriverebbe dall’inglese to quake/tremare: quaker è dunque colui che trema estaticamente di fronte al divino da cui è abbagliato. La Evans e la Cheevers dimostrano di essere, ossimoricamente, saldissime quacchere: professano la loro fede senza alcun cedimento, nonostante i patimenti loro inflitti in quasi quattro anni di prigionia. Non tralasciando, tra un interrogatorio e l’altro, tra un digiuno e l’altro, tra una visione mistica e un sogno profetico, di lavorare a maglia, di scrivere il resoconto del loro patire, di cucire vestiti per gli altri carcerati.
Quel che a mio avviso affascina del libro è la feconda molteplicità dei piani di lettura da esso offerti. Innanzitutto il testo è un documento prezioso della spiritualità e prassi del quaccherismo delle origini: “I quaccheri delle origini si distinsero per una serie di comportamenti eclatanti, che scaturivano da un assunto di base: ogni creatura è uguale di fronte a Dio, il quale è innanzitutto Luce interiore (…); le conseguenze di tale convinzione furono politicamente rivoluzionarie e socialmente eversive. Cancellata ogni gerarchia sociale, ogni distinzione di sesso e di classe, uomini e donne predicano, profetizzano, scrivono, interpretano le scritture “(pag.15).
In secondo luogo, come evidenzia Adriana Valerio nella premessa, il “Racconto veritiero” è un’ esemplificazione pratica dell’impossibilità comunicativa tra inquisitori e inquisiti, dovuta “a due diverse ecclesiologie di riferimento, a due diversi apparati teologici che sottendono l’orizzonte di senso e di fede degli interlocutori”.
In terzo luogo, è epistolario, profezia, autobiografia spirituale che si intrecciano in uno dei primi resoconti di viaggio dell’età moderna, secondo l’inedita e particolare prospettiva femminile e le modalità di un “nomadismo mistico, un’imprevedibile erranza governata solamente dalla volontà divina” (pag.22). Malgrado il divieto sociale che scoraggiava le donne dal viaggiare (testimoniato dal trattato del 1577 dello svizzero Zwinger, che in esso enumera quattro tipologie di persone cui sarebbe preclusa l’esperienza del viaggio “Infanti. Persone anziane. Pazzi. Donne”), la Evans e la Cheevers rappresentano infatti uno dei primi esempi di donne viaggiatrici,
E soprattutto, il libro può essere letto e apprezzato per la grande mole di interrogativi che suscita nei lettori e nelle lettrici più attente. Accade che la Evans e la Cheevers, ormai liberate, in una delle navi che le riporteranno in Inghilterra, incontrino casualmente un Cavaliere, fratello dell’Inquisitore, che esprime un’inaspettata ipotesi escatologica ”Se noi andremo in cielo per una via e loro per un’altra, comunque ci incontreremo tutti alla fine”. A lui le due donne ribattono che “Gesù Cristo Luce del mondo è l’unica via al Padre”.
Nella ricca postfazione, Pier Cesare Bori si chiede, e noi con lui, se in ultima analisi le due quacchere non siano, a diverso titolo, anch’esse intolleranti. E sottolinea che “la richiesta di libertà religiosa come diritto non nasce (…) da una relativizzazione della verità religiosa, come sarà in Locke, e dall’idea di separazione dei due poteri. Al contrario del relativismo, le prime richieste di libertà nascono da una certezza religiosa: l’interiore e totalmente indifesa presenza del regno di Dio (pag. 179).Bori conclude però affermando che il rifiuto assoluto della violenza e le formulazioni umanistiche e universalistiche del secondo quaccherismo sono, comunque, tratti essenziali della tolleranza. E ci ricorda “la continuità tra Katherine Evans e Sarah Cheevers e le donne quacchere che, provenendo dai movimenti antischiavisti, scriveranno nel 1848 la Dichiarazione dei sentimenti di Seneca Falls, un’impressionante, straordinaria affermazione dei diritti delle donne”.
Maria D'Asaro

Amaca del 17.05.09


"Gli altri" è il tema della Fiera del Libro di Torino. David Grossman, uno dei massimi scrittori viventi, lo ha affrontato così: "Posso scrivere solo se riesco a farmi invadere dalla vita degli altri". L´applauso scrosciante del pubblico, prima ancora che l´interprete traduca dall´inglese, è rivelatore. Il verbo "invadere", scelto da Grossman, è molto preciso e non è casuale. Descrive la difficoltà, la paura, la diffidenza, la fatica di ciascuno di noi: agli altri opponiamo una spiegabile, umana resistenza. Disturbano e mutano il fragile flusso delle nostre abitudini, a partire dagli altri a noi più prossimi. L´altro è invadente per definizione, è non io, è non noi.Ma lo scrittore spiega - e a questo servono gli scrittori - che non esiste narrazione, non esiste vita raccontabile, senza questa "invasione". Che mette a repentaglio certezze, scatena ansia, ma schiude al mutamento, dunque al futuro, la nostra stessa vita. Ascoltando Grossman ho capito che la politica, questo, non è più capace di spiegarlo. C´è una cattiva politica che è puro drenaggio della paura di massa, e su questa paura costruisce consenso e potere. C´è una buona politica in sonno, ammutolita, zittita, che non riesce a dire che proprio dentro questa paura (esattamente dentro questa paura) abitano la conoscenza del mondo, e il coraggio di vivere.


(La Repubblica, 17.05.09)

giovedì 7 maggio 2009

BENEDETTA PRIMAVERA


Succede così, quasi all’improvviso. Un giorno, per portare tuo figlio agli scouts, ripassi da Villa Bonanno e ti accorgi che i platani hanno abbandonato l’aspetto spettrale che li caratterizza d’inverno e si sono riempiti di migliaia di timide, tremolanti foglioline verdi. Nel giardino della scuola resti abbagliata dal fucsia inebriante degli splendidi cercis siliaquastrum. Nelle strade di periferie ti commuovono le robinie fiorite e la sfavillante lanugine verdolina dei pioppi. Dovremmo fermarci. Fare obbligatoriamente cinque minuti di raccoglimento per rendere grazie per questo rinnovato miracolo. Di più: sostare, da soli o insieme, in adorante contemplazione. Per le gemme rinate. Per i fiori di pesco. Per i manti gialli di acetosella. Per il miracolo di una nuova primavera. Ringraziando la terra. Che non si è ancora stancata di questi stupidi, avidi – e troppo spesso anche dannosi – bipedi eretti. Spesso colpiti da deliri di onnipotenza. Incapaci di commuoversi per un albero fiorito.
("Centonove", 30 aprile 2010)