venerdì 13 marzo 2009

Flags of our fathers


C’è un gioco che gli uomini continuano a fare da millenni: la guerra. Attraverso le immagini suggestivamente scolorite dello scontro tra americani e giapponesi nel Pacifico, Clint Eastwood sembra dirci che chi fa questo gioco perde sempre. Anche i vincitori. E infatti non vogliono essere promossi a eroi neppure coloro che hanno piantato la bandiera americana sul monte dell’isola giapponese di Iwo Jima: i tre soldati immortalati da un fortuito scatto cinematografico, rivelatosi di enorme impatto mediatico. Rimpatriati anche se la guerra non è ancora finita, i tre sono costretti a parodiare sino allo sfinimento psicologico la posa della bandiera, per commuovere gli americani e convincerli a continuare a finanziare lo sforzo bellico. Con un sottofondo musicale eccellente, il film mescola sapientemente le atrocità della guerra e le smargiassate della sua esaltazione retorica in patria: il fragore delle bombe si confonde con il rumore dei fuochi d’artificio della vittoria, le luci della festa si sovrappongono ai bagliori dei razzi esplosivi. Ma ci vuole una coscienza anestetizzata o asservita al successo e al potere per potere sopportare il costo del gioco e della sua assurda replicazione scenica: il soldato indiano non ce la fa a sopportarlo. “Maledetta quella terra che ha bisogno di eroi”, affermava Brecht. E il regista è d’accordo: se nel gioco della guerra ci sono degli eroi è solo per amore e pietà verso i compagni, come l’umile soldato/infermiere che tenta disperatamente e con infinita compassione di lenire le sofferenze e lo strazio dei soldati.

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